Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (1998)/05

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Emigrazione alpina al femminile: lo spazio del possibile (secc. 17-20)
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[ 49 ]EMIGRAZIONE ALPINA AL FEMMINILE: LO SPAZIO DEL POSSIBILE (SECC. 17-20)


Casimira Grandi



Zusammenfassung


Alpine Emigration auf weibliche Art: der Raum des Möglichen (17.-20. Jahrhundert)


Gegenstand des vorliegenden Beitrags bildet eine konzeptuelle Synthese der weiblichen Auswanderung aus dem Alpenraum zu historischer Zeit im Zusammenhang mit den Positionen im familiären Bereich. Die Grundthese bezieht sich auf eine soziale Mobilität grossen Ausmasses, die im einzelnen jedoch schwer zu fassen ist, weil die bevorzugt herangezogenen Quellen sie fast bis in unsere Tage verschweigen. Je nach ihrer Aktivität war die emigrierende Alpenbewohnerin «unsichtbar» als marginalisierte Arbeiterin oder, gerade umgekehrt, als perfekt Integrierte. Ein interessanter Aspekt, der sich aus der Untersuchung ergibt, hier jedoch nur beiläufig behandelt wird, ist die Entwicklung der Vorstellung über die biologische Differenz zwischen Mann und Frau. Dies bezüglich Arbeitskapazität und bezüglich Anerkennung der Autonomie der Emigrantin als einer Person, welche einen ökonomischen Beitrag zu erbringen vermag.


Gli incerti orizzonti storici del mondo femminile alpino hanno sollecitato molti ripensamenti tra gli studiosi contemporanei e il mio contributo si inserisce tra questi, infatti è un’ipotesi interpretativa delle oggettive differenze tra i due sessi attraverso il mutamento nel tempo degli schemi culturali dei paesi di partenza e di destinazione, in un’ottica che non è rivolta alla «storia di genere», ma, evitando facili suggestioni, è riconducibile alle [ 50 ]problematiche concrete poste da un complesso di ragioni (biologiche, culturali, sociali, storiche e individuali) spesso correlate tra loro.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

È opportuno sottolineare come l’ambito di studio sia stato condizionato nel suo sviluppo dalla molteplicità dei caratteri specifici che connotano le comunità alpine, una peculiarità che impedisce di pervenire a significativi risultati di sintesi, che valorizza però l’individualità dei diversi casi come prodotti diretti delle varie culture autoctone. La stessa «differenza sessuale» non è stata universalmente acquisita nel contesto alpino per quanto concerne i lavori rurali che la donna è legittimata a svolgere in assenza dell’uomo, una surroga che supera le ancestrali diversità in un ambiente di dominanti e dominate ancor prima dell’evento migratorio femminile inteso - anche - come emancipazione. La presenza di alcune problematiche derivanti dalla complessa morfologia delle Alpi, forse più rilevanti che in altri soggetti storici, ha prodotto numerose elaborazioni interpretative sulle difformi culture che si sono sviluppate tra questi monti, entro precisi limiti temporali, accentuando l’attenzione sui meccanismi di egemonia e di scontro all'interno della famiglia. La società del passato in genere e quella alpina in particolare, al di sopra della distinzione di classe, era composta tradizionalmente da mogli deboli e madri forti, inserite in una condizione familiare solidamente definita e strutturata, una situazione che, nello specifico della mia ricerca, impone di affrontare i più generali problemi relativi ai presupposti del movimento sociale - indifferenziati per sesso alle origini - in una prospettiva capace di cogliere anche le linee fondamentali dell’evoluzione della famiglia, pur all’interno di una dialettica fortemente segnata da tutto ciò che è maschile e che relega nella subalternità una realtà femminile fatta di arretratezza, esclusione, sottomissione. In considerazione di questa atmosfera non è difficile comprendere come fra le emigranti si instaurasse un legame profondo tra paesi d’origine e di destinazione, che ha fatto emergere l’esperienza migratoria come un fenomeno che assumeva caratteri di soggettività, che coinvolgevano l’intelligenza e l’affettività di coloro che partivano, in un sistema di relazioni in cui comportamenti e istituzioni erano strettamente collegati, anche quando esse erano solo birds of passage.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

L’emigrazione femminile alpina, tradizionalmente, è temporanea a medio raggio concessa/imposta dalle tradizioni della comunità, ma il suo potenziale migratorio, lo «spazio del possibile», può essere molto più ampio, perché è quello accessibile con la volontà di chi è sostenuto da forti motivazioni a cambiare la propria vita, per una pluralità di cause, e la migrante alpigiana [ 51 ]si ravvisa sovente in questo profilo volitivo. L’emigrante non è una figura uniforme, che parte sotto la spinta di insopprimibili bisogni economici, è anche questo, ma non solo; nella maggioranza dei casi è soprattutto una donna che cerca il soddisfacimento delle proprie aspettative di vita altrove, perché al paese d’origine non trovano corresponsione.

La mobilità della donna delle Alpi non conosceva frontiere, né gli ostacoli della natura si frapponevano al suo proponimento di migrare. La gente di queste montagne ha ancora memoria del fitto reticolo di secolari sentieri, segnati da migliaia di suole chiodate, quando non da piedi nudi, dove i confini invalicabili erano rappresentati unicamente da incapacità o mancanza di volontà del tutto personali; erano un groviglio di viottoli assolutamente inestricabile e invisibile per coloro che non appartenevano a quell’ambiente.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

Inoltre, le frontiere politiche non sono elementi rilevanti se l’ambito di analisi si diparte da una visione entropica dell’emigrazione, come in questo caso, né ritengo metodologicamente corretto distinguere i flussi internazionali da quelli interni, poiché non sono dissociabili in origine, essendo entrambi effetto, nel loro carattere fondante, di una condizione strutturale in cui il fattore primario è «andare altrove» per eliminare un problema, non per risol¬ verlo, cosa che avrebbe implicato una scelta diversa di come gestire la propria emigrazione.

A tale proposito si impone un chiarimento sul fattore «spazio», che non è calcolabile in termini di distanza, bensì in rapporto ai contenuti sociali - anche se sarei più propensa a parlare di «spazi» in considerazione delle molte sfaccettature di questo evento -; pertanto, secondo una visione che sovverte il classico schema di analisi sul movimento sociale, la durata dell’assenza, che socialmente è l’elemento più rilevante, e la distanza, divengono fattori secondari rispetto all’insieme delle variabili che connotano il fenomeno migratorio in esame.

Ricostruire la storia dell’emigrazione femminile alpina tra Seicento e Novecento, o più semplicemente rilevarla dal prevalente flusso maschile, trova un primo immediato ostacolo: il silenzio delle fonti e, quindi, la rarefatta presenza degli storici. La spiegazione proposta per comprendere questa situazione oscilla tra due opposte opinioni: assenza di documentazione indotta dalla marginalità del fatto o, al contrario, «invisibilità» della donna dovuta alla sua integrazione nel sistema migratorio. In considerazione delle numerose modalità emigratorie presenti nell’arco alpino del periodo, nonché della molteplicità delle attività esercitate in emigrazione, personalmente [ 52 ]accetto ambedue i concetti, pur nella loro contraddittorietà, consapevole dell’impossibilità di estendere qualsivoglia fatto sociale al di fuori della comunità che l’ha generato senza incorrere in fuorvianti generalizzazioni.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

È appena il caso di ricordare come la storia dell’emigrazione ha spesso abusato di modelli formulati per individuare le caratteristiche fondamentali del caso, in particolare per analizzare gli andamenti o verificare le loro conseguenze, trascurando invece la peculiare soggettività di questa azione, che è ancor più significativa quando il migrante è una donna proveniente da un ambiente entropico, a forte controllo sociale, quale era quello alpino.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content L’emigrazione dell’alpigiana è la storia di una unità di popolazione, scritta dalla successione degli eventi che la riguardano in quanto figlia, moglie e madre in emigrazione, una biografia caratterizzata dal susseguirsi dei tempi in cui si verificano tali condizioni, o più precisamente dagli intervalli tra esse. Anche in emigrazione la posizione di questa donna si delinea attraverso il posto che occupa nella famiglia d’origine o acquisita, nei processi economici familiari e, genericamente, nell’economia del lavoro femminile al suo interno, secondo un quadro di normalità sociale che non può prescindere dal fatto che essa appartenga ad un nucleo parentale;Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content è una concezione che in passato permeava le classi subalterne, in particolare quelle rurali, ma che trovava la sua massima espressione nell’ambiente alpino, in cui Vangustia loci rafforzava la coesione dei vincoli.

Nel mondo pre-industriale l’emigrazione femminile alpina era presente in quasi tutti i settori lavorativi,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content ma sono rare le testimonianze su di essa, perché la documentazione storica è al maschile, e ciò vale anche per la prima parte dell’epoca contemporanea, una discriminazione che deriva dall’emarginazione di talune categorie di lavoratrici, specie se forestiere adibite ad attività extradomestiche, al contrario di coloro che erano inserite con varie mansioni servili in una famiglia, nella quale finivano coll’essere omologate. Al di là dell’apparente ovvietà di questa osservazione, si evidenziano così i canali che disperdevano le «presenze» delle donne migranti, confermando l’inscindibile filo rosso che legava la loro visibilità al posto per esse prestabilito in seno alla famiglia da norme morali e civili confuse con consuetudini difficilmente superabili.

La memoria di queste «donne dimenticate» è aleatoriamente affidata ad eterogenee fonti indirette. La problematicità della documentazione, ben nota a tutti coloro che si occupano di storia dell’emigrazione - senza distinzione di sesso -, nel periodo moderno è caratterizzata dalla quasi [ 53 ]totale inesistenza di testimonianze dirette, fatta una parziale eccezione per le emergenze sociali; la ricerca risulta quindi alquanto dispersiva, ma estremamente affascinante, perché induce lo studioso dell’emigrazione ad affrontare una documentazione per lui desueta. Per il presente articolo i documenti più antichi li ho recuperati negli archivi degli istituti assistenziali, negli atti processuali, nelle cronache, e questo sino ad Ottocento inoltrato.

Dopo tale periodo la tipologia delle fonti tende ad essere più formale, perché iniziano le indagini seriali che porgono attenzione anche al movimento sociale, però solo con finalità prettamente quantitative; si dovrà attendere la seconda metà del secolo per ottenere anche informazioni qualitative, peraltro inizialmente abbastanza discutibili,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content perché i modelli che spesso sono stati usati sulle fonti dirette per la classificazione delle correnti migratorie, variamente incrociando i fattori rilevati, hanno evidenziato il carattere di ambiguità delle categorie di riferimento.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Le fonti indirette continueranno ad essere il referente privilegiato per l’emigrazione femminile in generale, finché questa resterà un evento sociale poco evidente; come sarà esplicitato in seguito, il fenomeno si andrà delineando in maniera autonoma presso le competenti autorità quando i flussi migratori saranno connotati anche per sesso e non più solo per attività e direttrice.

La migrante donna, quindi, formalmente era una figura ai margini del movimento sociale, dominata in tutti i sensi dal maschio. Con qualche perplessità ho appreso che oltre un secolo fa c’era già stato chi non aveva accettato lo stereotipo della emigrante di allora, ma le aveva riconosciuto una sua individualità al di fuori del comune pensiero dell’epoca; infatti, in un articolo del 1885, Ravenstain asseriva che «[the] woman is a greater migrant than man»,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content facendo intuire con quest’affermazione l’importanza dei problemi di genere in relazione all’emigrazione.

Il movimento sociale in ambito alpino - come altrove -, in passato era considerato in maniera indifferenziata rispetto ai sessi, almeno sino a fine Ottocento quando divennero rilevanti anche distinte correnti femminili. L’applicazione di una prospettiva di «genere» nell’analisi della mobilità potrebbe far emergere l’esistenza di una concezione dell’emigrazione delle alpigiane autonoma rispetto a quella maschile, quasi certamente diversa, ma sicuramente interattiva; l’obiettivo primario è quindi quello di «individuare i meccanismi di negoziazione [e gli eventuali conflitti] attraverso cui si crearono e si preservarono nel processo storico» identità e ruoli sociali. Si tratta, sostanzialmente, di rendere visibili quei fattori - variabili [ 54 ]che nel tempo e nello spazio avevano distinto l’uomo e la donna nel destino migratorio.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

L’emigrazione femminile alpina, che ininterrottamente si snoda nei secoli e continua ancor oggi, è una vicenda articolata, che si intreccia in tempi e luoghi differenti, ma che si basa tuttora, in buona parte, sempre sugli stessi elementi. «Da un punto di vista fenomenologico, i movimenti migratori, sia per le loro intrinseche qualità che per i risultati che producono, presentano un notevole grado di complessità e richiedono pertanto di venir considerati da un punto di vista pluridimensionale. Questo perché hanno rilievo di fenomeni sociali <totali>, nel senso che presentano una loro dimensione economica, sociale (in senso strutturale, istituzionale e organizzativo) e, inoltre, una dimensione politica, religiosa, motivazionale biologica (rispetto alla popolazione) e culturale.»Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Ed è stata questa complessità che mi ha sostenuta nel tentativo - non facile - di esaminare il mio soggetto senza porre le rigide scansioni temporali dei documenti studiati che, dati i limiti imposti, avrebbero frammentato la fluidità dell’esposizione.

Se per l’emigrante alpina il confine politico era ininfluente, ben altri ostacoli non meno ardui, però, si anteponevano ad essa in passato: quelli di una mentalità più rigida che altrove, prodotta dall’implosione che derivava, oggettivamente, dalla problematica morfologia del territorio che ne ostacolava le interazioni, in un ambiente che per lo più era anche periferico; la montanara arrivava comunque al loro superamento, ma con modalità e tempi diversi rispetto all’uomo. Inoltre, mi è sembrato di cogliere una sorta di similarità nella complessità del mondo femminile e del mondo alpino, tale da rendere la donna capace di adeguarsi, di comprendere la montagna meglio dell’uomo nelle sue possibili realizzazioni economiche e sociali più recondite, come è stato dimostrato nei periodi del massimo flusso migratorio maschile, quando le Alpi sono state «gestite» dalle donne.

L’ipotesi interpretativa delle oggettive diversità biologiche tra uomo e donna in relazione al loro potenziale lavorativo, in particolare alla capacità - o meglio alla possibilità - che aveva la donna alpina di esprimerlo, è emersa in questa fase storica. E ciò mi induce a sottolineare che l’indiscutibile differenza fisiologica tra i due sessi non è interpretabile sulla base di una categoria univoca, perché essa va filtrata attraverso la cultura di appartenenza, i condizionamenti sociali e, per l’emigrante, anche comparando gli schemi culturali dei paesi d’origine e di destinazione. Infatti, come chiaramente evidenziano Rosaldo e Lamphere analizzando il «secondo sesso», dipende [ 55 ]dall’interpretazione della biologia che è associata con il modo di vita di ogni cultura definire ciò che è maschile e ciò che è femminile.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content In quest’ottica il fattore spazio diventa un elemento comprimario nell’analisi mirata a delineare l’emigrante alpina, uno spazio, lo ribadisco, inteso in termini di distanze culturali.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Lo «spazio del possibile» per essa esprime, al contempo, un concetto di mobilità all'interno della società d’origine - verticale - e di movimento migratorio,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content prodotto dal «muoversi mentale», dal superamento del ruolo imposto dalle tradizioni, dalle consuetudini del tempo e del luogo. È una donna che potremmo visualizzare al centro di una serie di costrittivi cerchi concentrici, tanto più coercitivi quanto più le sono vicini; ed è facile da questa immagine passare per traslato alla «cerchia parentale», l’entità che meglio evidenzia i condizionamenti che essa subiva attraverso la persistenza di fattori socio-culturali di tipo arcaico. Individuabili, quest’ultimi, non di rado nei pregiudizi etnici usati in funzione dello sfruttamento delle componenti ataviche e istintive prodotte dal sistema stesso. Il che, comunque, non impediva ad esempio l’emigrazione di alpigiane ancora nel Cinquecento, come balie a Venezia o come garzoni a Genova; ho citato volutamente queste due attività così diverse tra loro, l’una esclusivamente femminile e l’altra no, per sottolineare come la strumentalizzazione del lavoro della donna sia di fatto al di fuori di precise coordinate temporali, professionali e culturali.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content La «mobilità di transizione» quale linea di demarcazione tra le presunte sedentarie popolazioni pre-moderne ed il movimento di quelle successive è un’ipotesi che ha ottenuto una certa risonanza tra gli studiosi dell’emigrazione, ma che non può essere applicata all’emigrazione alpina, neppure al femminile; infatti numerose fonti indirette attestano la presenza di montanare nelle migrazioni stagionali in agricoltura o quali domestiche nelle città come presenze già consolidate in epoca moderna. A tale proposito mi sembra interessante la testimonianza che si ricava su queste donne attraverso la documentazione degli istituti assistenziali, a cui sovente ricorrevano nei periodi di disoccupazione, quando neppure la questua consentiva loro la sussistenza.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content In queste contingenze non è trascurabile, però, neppure la quota di coloro che per ingenuità o estrema necessità divenivano prostitute - ultima ratio di quasi tutte le lavoratrici disoccupate -,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content forse le uniche emigranti che si precludevano definitivamente il ritorno alla comunità d’origine.

Onde meglio comprendere l’ininfluenza del fattore tempo nella concreta conoscenza della migrante, mi sembra interessante riportare il pensiero di [ 56 ]uno studioso ottocentesco il quale, sottendendo nella sua analisi le stereotipate caratteristiche femminili - passività, impulsività, disordine -, asseriva che la donna dedita ai lavori rurali «[aveva] abitudini eccezionalmente chiete, tranquille, casalinghe [... lo] spirito di intrapresa assai lieve e limitato, sicché essa si trova impacciata a moversi magari dal villaggio alla più vicina città»; degna di nota era pure la sua sostanziale tranquillità (più che apparente), ma anche la fermezza dei proponimenti con cui poteva abbandonare le più inveterate abitudini per seguire gli uomini nella loro avventura migratoria, giacché non le veniva ancora riconosciuta alcuna autonomia. Inoltre, sembra osservare il Nostro quasi con stupore, essa possedeva «una sua facilità di giudizio», che la induceva alla risolutezza nelle decisioni, anche se «[ha] il pensiero non molto vivace e sveglio, la mente ristretta e zotica [viene], per esprimersi esattamente, soggiogata e impressionata dalla grande audacia della novità [dimostrando una insospettabile] forza d’animo». La sua affettività, inoltre, era considerata qualcosa di appena abbozzato, non «suscettibile] di quelle finezze particolari del sentimento, che si estrinsecano negli animi più colti, negli spiriti eletti», tanto da non interferire negli «interessi morali [che] legano maggiormente l’uno all’altro i componenti di una famiglia», quasi a significare che non si ponevano coinvolgimenti affettivi al distacco. Ed egli proseguiva sottolineando che la totale ignoranza del proprio destino e del nuovo ambiente, della probabile solitudine, non turbavano l’animo dalla forza non comune di queste donne; era un comportamento che le rivalutava di fronte a chi le aveva considerate delle «minorenni a vita», sino a riconoscere in loro una «buona volontà eccezionale [se] non è eletta la mente perché molto trascurata, sono più forti il cuore e la volontà degli atti».Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Una concezione che in parte si accordava con quella, ben più cinica per certi aspetti, di un attento osservatore della popolazione alpina come il possidente bellunese Maresio Bazolle.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Ma, come bene descrisse Michelle Perrot in «La popolana ribelle»; «Le donne non sono né passive, né sottomesse. La miseria, l’oppressione, la dominazione per vere che siano, non sono sufficienti a spiegare la loro storia [...]. Sono diverse. Cercano affermazione con altre parole, con altri gesti. In città, sul lavoro, applicano pratiche quotidiane diverse, forme concrete di opposizione alla gerarchia, alla disciplina e sono strettamente correlate al proprio uso dello spazio e del tempo.»Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

La complessità del soggetto donna, quasi una «figura plurale», è sicuramente accentuata nell’emigrante alpina, perché gran parte della sua storia, [ 57 ]più che in altre zone, è stata celata nelle fonti dall’ipocrisia di parole che volgevano le migrazioni esclusivamente al maschile ed in cui essa, se appariva, era solo come appendice dell’uomo, padre o marito che fosse. A complicare ulteriormente questo campo di analisi a fine Ottocento, quando l’emigrazione femminile in generale - e quella alpina in modo specifico - assumono precise connotazioni di flussi autonomi, si afferma l’idea di una ragione scientifica nella differenza biologica tra i sessi per limitare all’ambiente domestico lo spazio vitale della donna, perché naturalmente dotata e vocata alla riproduzione: «Quando andiamo a cercare le ragioni che sono state date, di volta in volta, per internare le donne, per restringerne l’accesso alla vita pubblica o all’istruzione, non troviamo, come potevamo supporre, le ragioni di un potere patriarcale; troviamo invece, soprattutto, ragioni sanitarie, igieniche, biologiche.»Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Si rileva pertanto con immediatezza l’importanza della storicità ed il carattere dinamico della divisione sessuale del lavoro, tanto più importante nelle varie fasi di mutamento economico e sociale che si sono succedute nei secoli. Le variabili che concorrono alla determinazione di questo processo sono molteplici, ma di particolare importanza per il fenomeno in esame ritengo siano quelle che interessano il tipo di organizzazione familiare, la posizione della donna nella stratificazione sociale, le peculiarità etniche ed i legami di parentela che conformano la società d’origine.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Louise Tilly e Joan Scott, nel loro famoso studio sull’evoluzione del lavoro femminile nella società capitalistica, scrissero che l’età di accesso al matrimonio, il numero dei figli, la dimensione del gruppo domestico e «il valore dei bambini per la famiglia» sono tutti elementi che incidono sulla vita lavorativa della donna; pertanto, la storia del lavoro femminile (ed a maggior ragione se in emigrazione) deve essere inscindibilmente collegata alla storia della famiglia.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

Esiste una stretta e complessa correlazione tra la famiglia intesa come unità di residenza e riproduzione e la famiglia intesa come struttura organizzativa dei processi di produzione e consumo, inoltre nel caso dell’emigrante alpina vanno vagliati con particolare attenzione i rapporti all’interno del nucleo familiare ed i legami con il più vasto cerchio della parentela, relazioni primarie qualificate in senso affettivo, «particolaristiche e regolate da prescrizioni».Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content È una ricerca di non facile realizzazione per lo storico, perché le testimonianze in materia sono decisamente carenti, e quelle reperite spesso offuscate: la donna è invisibile perché è considerata inattiva, al punto da far sembrare che tale stato sia considerato il soddisfacimento di una [ 58 ]sua naturale propensione. La verifica in termini quantitativi e qualitativi del lavoro delle donne delle classi inferiori - indipendentemente dalle differenze regionali - ha dimostrato invece che esse lavoravano più a lungo degli uomini e che raramente erano esentate dalle incombenze più faticose;Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content è appena il caso di ricordare che ovunque la tradizione tendeva, e tende, a sottovalutare il contributo della componente femminile allo sviluppo economico, relegandola ad un ruolo di subalternità rispetto a quello maschile, a conferma della più generale teoria della gerarchia dei sessi. Probabilmente a ciò non è estranea la difficoltà di definire e valutare il lavoro femminile, che non si può fare avendo come unico riferimento la monetarizzazione, perché parte di esso non è «visibile», o più precisamente circoscrivibile ad un’attività che produce reddito, quali sono ad esempio i servizi che fornisce la lavoratrice-casalinga, l’aiuto dato in agricoltura o nel lavoro a domicilio come coadiutrice dell’uomo. E chi studia l’emigrazione non é esente da questa distorsione. Il risvolto economico della sottovalutazione del lavoro femminile è particolarmente evidente nel passaggio dalla ruralità alpina all’ambiente urbano; le montanare erano donne che da sempre svolgevano un’attività produttiva, ma questo sembrava - erroneamente - che rallentasse lo sviluppo economico e indebolisse il loro status nel paese d’origine. Non si considerava il valore reale di un lavoro praticato in un contesto ambientale deliberatamente abbandonato dal maschio in età attiva perché poco remunerativo.

L’alpigiana rivelava tutto il suo potenziale lavorativo in emigrazione, lontana dalla subordinazione all’ambiente familiare, una situazione che, diversamente, avrebbe provocato conflitto tra i sessi; la sostanziale staticità dei rapporti nella società alpina tradizionale riusciva a controllare sul nascere la conflittualità, imbrigliandola in forme rituali, ma ciò non era possibile altrove, dove la diversa organizzazione del «tempo di vita» e la diversa divisione sessuale del lavoro producevano anche un «tempo familiare» con ritmi nuovi, non ultimo negli eventi demografici.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content Il «tempo» della donna è sempre stato giudicato flessibile, per la sua comunque disponibilità, cosa che le aumentava il carico di lavoro, sostituendo o integrando l’opera dell’uomo in famiglia, un concetto che permarrà anche in emigrazione, facendone un cardine del suo asservimento coercitivo al mercato del lavoro.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

L’approccio alla migrazione femminile delle Alpi che verte sulla distinzione delle relazioni sociali tra uomini e donne, dovuta alle diverse accentuazioni che si danno nel tempo alle caratteristiche fisiologiche, evidenzia come la [ 59 ]propensione migratoria della donna diventa tanto più concreta quanto più essa acquista un ruolo di preminenza nella famiglia e nella comunità, rispetto ad un uomo che sempre più spesso rimpiazza anche nei lavori maggiormente gravosi, e, ciò che è più significativo, inizia a sostituirlo anche socialmente durante le sue assenze, lasciando intravedere l’inizio di un’emancipazione basata sulla sua capacità di gestire l’economia familiare in assenza del capo famiglia. È la corrente migratoria maschile, perciò, che fa valorizzare il potenziale femminile, portando al superamento dello stereotipo dell’inferiorità fisica e sociale della donna, nel paese d’origine prima e in emigrazione poi. La tradizionale inferiorità fisica e sociale femminile, e quindi la subalternità che ciò induceva, diviene un elemento secondario rispetto all’importanza del contributo economico che essa può dare lavorando fuori dalla famiglia.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

La divisione sessuale del lavoro deriva, pertanto, dal ruolo sociale e dall'immagine della donna nella comunità, dalla sua formazione: in ultima analisi dai condizionamenti culturali impliciti nei concetti di «genere sessuale» e «razionalità economica». Le tipologie di divisione sessuale del lavoro divengono un mezzo fondamentale per spiegare la rilevanza del contributo femminile allo sviluppo socio-economico del paese d’origine, che altre modalità di analisi non rilevano o, come si è accennato, potevano erroneamente negare. Lo studio dei ruoli sessuali e dell’attribuzione delle mansioni lavorative è un soggetto che suscita molto interesse tra gli scienziati sociali, ma che è stato trattato con disattenzione quasi sistematica nelle ricerche sull’emigrazione, anche se l’ampio panorama delle attività svolte dalle donne delle Alpi costituisce un terreno d’indagine privilegiato per comprendere questo fenomeno, che si evidenzia attraverso le diverse fasi dei mutamenti economico-sociali.

I prodromi della nuova era migratoria, che avevano iniziato a delinearsi in Europa tra metà Settecento ed i primi decenni dell’Ottocento,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content avevano avviato anche nell’arco alpino l’epoca delle assenze maschili prolungate, che per l’alpigiana si concretizzarono con un mutamento del suo status nella famiglia e nella comunità: la mobilità sociale diventava una componente essenziale del paradigma della modernizzazione anche nelle Alpi, a cui la donna contribuiva con il fattivo lavoro nelle tradizionali attività maschili. In comunità popolate soprattutto da anziani e bambini, perché la «population pressure forced increasing numbers of long-distance migrants to leave mountainous regions and find temporary work in provincial cities [ 60 ]and prosperous countrysides»,Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content l’alpigiana conquistava nuovi «spazi», prerequisito per il suo futuro migratorio.

I cambiamenti dei percorsi migratori nei secoli, lungo i quali si modificano le forme di divisione del lavoro, costituiscono altrettante linee di ricerca, in cui il passaggio da attività bracciantili e servili, o comunque poco specializzate tipiche dell’epoca moderna, ad attività sempre più dominate dall'industria e da un’agricoltura progredita, richiedenti quindi una certa qualificazione, inducono una positiva evoluzione economica e sociale dell’emigrante alpina. Una situazione che, nel suo evolversi, porterà ad una minore considerazione delle differenze biologiche nell’attività lavorativa, a favore dell’emancipazione e dell’affermazione del ruolo della donna nella società contemporanea, pur senza totalmente sovvertire il suo posto negli equilibri interni alla famiglia, che al paese d’origine rimarranno radicati nella tradizionale cultura alpina ed in emigrazione continueranno ad essere un sicuro elemento identificativo.

I limiti alle possibilità migratorie femminili sono puramente convenzionali, il loro «spazio del possibile» è delimitato solo dalla volontà maschile e dalle consuetudini che la sorreggono. L’emigrante alpina per molti aspetti è una figura indistinta nel più vasto universo della mobilità femminile, che esce lentamente dal cono d’ombra in cui l’ha relegata l’uomo ed una cultura forse più retriva che altrove, che rimarrà comunque la compagna di vita e di strada che deve restare sempre un passo indietro, perchè quello è il posto che la società le ha assegnato. Se si accetta questa interpretazione si può anche comprendere come l’attività lavorativa delle donne - al di fuori dell’ambito domestico - sia sempre subordinata e conflittuale rispetto al ruolo tradizionale, anche quando la loro valenza economica è stata acquisita come indispensabile per la famiglia.


Note

1 II titolo e l’ipotesi del mio lavoro erano inizialmente mirati ad una più vasta ricerca, ma i limiti di stampa imposti agli Atti del Convegno mi hanno costretta ad una forzata sintesi - territoriale e documentaria -, mi scuso per quanto non sono riuscita a concettualizzare adeguatamente.

2 Emblematica in proposito è la corrente migratoria femminile studiata da Daniella Todesco, «La vita delle ciòcie in Trentino e l’Ufficio del Lavoro del Comune di Trento», in: Daniella Todesco, Desy Berloffa, Paola De Benedet, Lucia Fontana, Ciòcie e ciòdeti, un’emigrazione stagionale di donne e ragazzi dal bellunese al Trentino, Feltre (Belluno) 1995, pp. 9-60.