Page:Labi 1998.djvu/37

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totale inesistenza di testimonianze dirette, fatta una parziale eccezione per le emergenze sociali; la ricerca risulta quindi alquanto dispersiva, ma estremamente affascinante, perché induce lo studioso dell’emigrazione ad affrontare una documentazione per lui desueta. Per il presente articolo i documenti più antichi li ho recuperati negli archivi degli istituti assistenziali, negli atti processuali, nelle cronache, e questo sino ad Ottocento inoltrato.

Dopo tale periodo la tipologia delle fonti tende ad essere più formale, perché iniziano le indagini seriali che porgono attenzione anche al movimento sociale, però solo con finalità prettamente quantitative; si dovrà attendere la seconda metà del secolo per ottenere anche informazioni qualitative, peraltro inizialmente abbastanza discutibili,[8] perché i modelli che spesso sono stati usati sulle fonti dirette per la classificazione delle correnti migratorie, variamente incrociando i fattori rilevati, hanno evidenziato il carattere di ambiguità delle categorie di riferimento.[9] Le fonti indirette continueranno ad essere il referente privilegiato per l’emigrazione femminile in generale, finché questa resterà un evento sociale poco evidente; come sarà esplicitato in seguito, il fenomeno si andrà delineando in maniera autonoma presso le competenti autorità quando i flussi migratori saranno connotati anche per sesso e non più solo per attività e direttrice.

La migrante donna, quindi, formalmente era una figura ai margini del movimento sociale, dominata in tutti i sensi dal maschio. Con qualche perplessità ho appreso che oltre un secolo fa c’era già stato chi non aveva accettato lo stereotipo della emigrante di allora, ma le aveva riconosciuto una sua individualità al di fuori del comune pensiero dell’epoca; infatti, in un articolo del 1885, Ravenstain asseriva che «[the] woman is a greater migrant than man»,[10] facendo intuire con quest’affermazione l’importanza dei problemi di genere in relazione all’emigrazione.

Il movimento sociale in ambito alpino - come altrove -, in passato era considerato in maniera indifferenziata rispetto ai sessi, almeno sino a fine Ottocento quando divennero rilevanti anche distinte correnti femminili.

L’applicazione di una prospettiva di «genere» nell’analisi della mobilità potrebbe far emergere l’esistenza di una concezione dell’emigrazione delle alpigiane autonoma rispetto a quella maschile, quasi certamente diversa, ma sicuramente interattiva; l’obiettivo primario è quindi quello di «individuare i meccanismi di negoziazione [e gli eventuali conflitti] attraverso cui si crearono e si preservarono nel processo storico» identità e ruoli sociali. Si tratta, sostanzialmente, di rendere visibili quei fattori - variabili -

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GRANDI: EMIGRAZIONE ALPINA AL FEMMINILE