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Page:Labi 1998.djvu/36

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accetto ambedue i concetti, pur nella loro contraddittorietà, consapevole dell’impossibilità di estendere qualsivoglia fatto sociale al di fuori della comunità che l’ha generato senza incorrere in fuorvianti generalizzazioni.[4]

È appena il caso di ricordare come la storia dell’emigrazione ha spesso abusato di modelli formulati per individuare le caratteristiche fondamentali del caso, in particolare per analizzare gli andamenti o verificare le loro conseguenze, trascurando invece la peculiare soggettività di questa azione, che è ancor più significativa quando il migrante è una donna proveniente da un ambiente entropico, a forte controllo sociale, quale era quello alpino.[5] L’emigrazione dell’alpigiana è la storia di una unità di popolazione, scritta dalla successione degli eventi che la riguardano in quanto figlia, moglie e madre in emigrazione, una biografia caratterizzata dal susseguirsi dei tempi in cui si verificano tali condizioni, o più precisamente dagli intervalli tra esse. Anche in emigrazione la posizione di questa donna si delinea attraverso il posto che occupa nella famiglia d’origine o acquisita, nei processi economici familiari e, genericamente, nell’economia del lavoro femminile al suo interno, secondo un quadro di normalità sociale che non può prescindere dal fatto che essa appartenga ad un nucleo parentale;[6] è una concezione che in passato permeava le classi subalterne, in particolare quelle rurali, ma che trovava la sua massima espressione nell’ambiente alpino, in cui Vangustia loci rafforzava la coesione dei vincoli.

Nel mondo pre-industriale l’emigrazione femminile alpina era presente in quasi tutti i settori lavorativi,[7] ma sono rare le testimonianze su di essa, perché la documentazione storica è al maschile, e ciò vale anche per la prima parte dell’epoca contemporanea, una discriminazione che deriva dall’emarginazione di talune categorie di lavoratrici, specie se forestiere adibite ad attività extradomestiche, al contrario di coloro che erano inserite con varie mansioni servili in una famiglia, nella quale finivano coll’essere omologate. Al di là dell’apparente ovvietà di questa osservazione, si evidenziano così i canali che disperdevano le «presenze» delle donne migranti, confermando l’inscindibile filo rosso che legava la loro visibilità al posto per esse prestabilito in seno alla famiglia da norme morali e civili confuse con consuetudini difficilmente superabili.

La memoria di queste «donne dimenticate» è aleatoriamente affidata ad eterogenee fonti indirette. La problematicità della documentazione, ben nota a tutti coloro che si occupano di storia dell’emigrazione - senza distinzione di sesso -, nel periodo moderno è caratterizzata dalla quasi

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HISTOIRE DES ALPES - STORIA DELLE ALPI - GESCHICHTE DER ALPEN 1998/3