Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (2009)/07

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Gli svizzeri rimpatriati dall'Italia negli anni della Seconda guerra mondiale tra trattative diplomatiche e misure di soccorso
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[ 89 ]Gli svizzeri rimpatriati dall'Italia negli anni della Seconda guerra mondiale tra trattative diplomatiche e misure di soccorso


Vanessa Giannò



Zusammenfassung


Heimkehrschweizer aus Italien während des Zweiten Weltkrieg: diplomatische Verhandlungen und Hilfsmassnahmen


Während des Zweiten Weltkrieges nahm die Schweiz aus den Nachbarstaa- ten Flüchtlinge auf, welche dort aus politischen oder rassistischen Gründen verfolgt wurden. Weniger bekannt ist, dass sich auch Schweizer Bürger, wel- che zuvor in europäische Länder ausgewandert waren, entschieden, in die Schweiz zurückzukehren: Schweizer hebräischer Herkunft oder hebräischen Glaubens, die wegen der deutschen und italienischen Rassengesetze verfolgt waren; Schweizer Bürger, die der Arbeitslosigkeit und den Bombardierungen entflohen; ehemalige Schweizerinnen, welche ihr Heimatrecht wegen einer Heirat mit einem Ausländer verloren hatten, mit der zurückgebliebenen Familie und dem Vaterland aber weiterhin stark verbunden blieben. Ihre Massenrückwanderung, die Schwierigkeiten, die Menschen unterzubringen und der Wunsch, die Rückwanderer und ihren Besitz zu retten, führten zu erheblichen diplomatischen Auseinandersetzungen zwischen der Schweiz und den betroffenen Ländern. Thematisiert wird in einem ersten Teil die Situation der Schweizerbürger in Italien, und zwar vor allem hinsichtlich der getroffenen Vereinbarungen, die Schweizer zu schützen und die Zahl der Rückwanderer zu begrenzen. Ein zweiter Teil widmet sich sodann der Aufnahme der Rück- wanderer in der Schweiz. [ 90 ]Problematica e stato della ricerca

Lo studio del rimpatrio dei cittadini svizzeri negli anni della Seconda guerra mondiale presenta vari aspetti interessanti. In primo luogo esso mette in luce il legame tra l’emigrante e il paese d’origine, mediato dai consolati e dalle legazioni nei rispettivi paesi di adozione. Nel periodo e nel contesto considerati, l’Italia degli anni Trenta-Quaranta segnata dall’emergere dell’antisemitismo e dei decreti razziali e dal conflitto bellico, questi legami assumono tanto più valore poiché le autorità elvetiche, in misura più o meno intensa, interven- nero per proteggere i propri concittadini all’estero e per riaccoglierli quando la loro permanenza divenne impossibile. La progressiva evoluzione della situazione internazionale rese necessario definire una terza via di intesa tra la legislazione elvetica e italiana, ad opera delle personalità e degli enti che ruotavano attorno all’emigrante, ovvero della Divisione degli affari esteri a Berna (d’ora in poi DAE) e dei Consolati generali di Svizzera da un lato, del Ministero degli Interni e dei Capi di Provincia dall’altro. Ciò si verificò per il caso delle rifugiate ex-svizzere che godettero di particolari condizioni di accoglienza, come per il caso degli svizzeri di fede o discendenza ebraica che si trovarono in Italia e nei paesi occupati dai nazionalsocialisti dove la legislazione in vigore si basava su norme di stampo razziale, e infine per il caso dei concittadini residenti in Italia centrale di cui era previsto il rimpatrio forzato. Le trattative diplomatiche per preservare le colonie svizzere all’estero approdarono quindi a delle risoluzioni pratiche grazie anche alla necessità, per il governo fascista, di salvaguardare la colonia italiana residente in Svizzera. Un secondo elemento di interesse riguarda il ritorno dell’emigrante che comportò anche l’organizzazione dei trasporti, la salvaguardia e il trasferimento dei suoi beni, come pure la creazione di reti assistenziali e di strumenti di riadatta- mento e reintegrazione, tra l’altro attraverso il lavoro. Non da ultimo, vi è da considerare il lascito del loro soggiorno all’estero, ovvero l’«importazione» di idee e abitudini straniere nella patria d’origine.

Il tema del rimpatrio degli svizzeri all’estero è stato finora oggetto di poche analisi e per lo più integrato in studi di carattere generale sulla politica d’asilo e sui rifugiati in Svizzera durante questo periodo.[1] In modo più mirato, Sabine Hofmann e May Broda hanno affrontato il tema dei rimpatriati dalla Germania e dalla Prussia, che tornarono non per motivi razziali ma piuttosto per fuggire dalla guerra.[2] Uno studio però complessivo sul tema è tuttora inesistente, forse anche per la difficoltà di collegare le fonti di informazione sui rifugiati e definire [ 91 ]così il percorso degli emigranti dal paese d’adozione al momento del ritorno nel paese d’origine. Gli interlocutori mutano, infatti, e le destinazioni non sono per tutti le stesse all’interno della Confederazione.

In questo articolo si intende delineare il profilo delle varie tipologie di rimpatriati svizzeri provenienti dall’Italia nel periodo della Seconda guerra mondiale. In modo più approfondito, attraverso le fonti diplomatiche, presenteremo i dibattiti suscitati dai disagi della guerra e dalle ambizioni di alcuni concittadini di ritornare in patria. Infine, cercheremo di illustrare le strutture di accoglienza create per sostenere i rimpatriati dall’estero, indicando alcuni dei problemi che essi dovettero affrontare nel processo di reinserimento.


Tre tipologie di rimpatri

La persecuzione e la precarietà determinate dall’ondata antisemita e dalla guerra a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta determinò un ritorno considerevole di cittadini elvetici residenti all’estero. Dall’inizio della guerra al luglio 1945 furono infatti ben 55’365 i rimpatriati;[3] altri 1672 svizzeri rientrarono tra il luglio e il settembre dello stesso anno e altri ancora fecero ritorno negli anni successivi. Dalla Russia, dalla Germania e soprattutto dalla Prussia orientale, dove sussistevano inoltre particolari difficoltà di approvvigionamento alimentare, il ritorno fu massiccio soprattutto a partire dal 1945.[4] Dall’Italia, furono invece relativamente pochi i rimpatri,[5] tra i quali possiamo distinguere tre categorie principali. Una prima categoria è costituita dalle donne che persero la cittadinanza elvetica a seguito del matrimonio contratto con uno straniero. I loro rientri si concentrarono soprattutto tra il 1943 e il 1945 presso le proprie famiglie di origine, per trovare provvisoriamente maggiore agio a una situazione difficile. Una seconda categoria riguarda poi i cittadini elvetici che rimpatriarono dapprima provvisoriamente in seguito alla mobilitazione svizzera, poi per la disoccupazione imperante e la paura dei bombardamenti. Tra questi, si staglia infine il caso di coloro che furono perseguitati per la loro discendenza o religione ebraica. La questione del loro rimpatrio si pose per le autorità elvetiche parallelamente alla diffusione delle persecuzioni razziali e dell’occupazione tedesca. Ognuna di queste tre categorie presenta tempi, motivazioni e trattamenti ben distinti da parte delle autorità sia svizzere che estere. [ 92 ] Le cittadine ex-svizzere residenti in Italia

Tra il 1943 e il 1945 il Comando di polizia del Cantone Ticino registrò 68 ex- cittadine svizzere che tornarono in patria.[6] Si trattava di cittadine di origine ticinese ma ormai italiane (tranne il caso di una cittadina argentina e di due tedesche), di età compresa tra i 23 e i 66 anni,[7] per lo più casalinghe (fanno eccezione due insegnanti, due sarte, una contadina, una domestica, una sigaraia, un’impiegata, un’operaia e un’acrobata). Una quarantina di loro erano domiciliate in Lombardia, quasi tutte avevano in Svizzera dei parenti e molte di loro (35) i genitori: grazie alla loro garanzia, 55 di esse furono «liberate».[8] I motivi che spinsero queste donne a raggiungere le proprie famiglie abbandonando il domicilio in Italia furono varie: un terzo di esse addusse una motivazione politica, ovvero la necessità di fuggire dalle rappresaglie a causa della collaborazione del marito o di un figlio con i partigiani; una decina di donne, rimaste sole in Italia, vollero poi raggiungere i propri famigliari o ricongiungersi ai mariti internati in Svizzera; altre ancora decisero di rimpatriare per fuggire dai bombardamenti, che ad alcune di loro avevano già distrutto la casa, o per motivi di salute; solo due persone infine dovettero fuggire dalla persecuzione antisemita. Esse furono inizialmente sottoposte alle medesime condizioni degli stranieri, godendo solo in seguito di condizioni privilegiate rispetto agli altri rifugiati.[9] Nel dicembre 1942 le autorità cantonali definirono infatti «troppo duro» il respingimento per le ex-cittadine svizzere[10] e, nel settembre 1943, decisero di accoglierle insieme ai loro figli, anche qualora fossero sprovviste del visto,[11] autorizzandole a risiedere presso parenti di nazionalità svizzera con un permesso di tolleranza (previo accordo del cantone).[12] Le donne ex- svizzere rimaste vedove poterono inoltre riacquisire la cittadinanza elvetica grazie alla legge sulla Reintegrazione.


Gli svizzeri verso il rimpatrio a causa della disoccupazione prima, dei bombardamenti poi


Nel dicembre 1938, risiedevano in Italia circa 16’700 svizzeri.[13] A titolo provvisorio, allo scoppio del conflitto furono mobilitati circa 700 svizzeri risiedenti in Italia.[14] Dai documenti diplomatici consultati, possiamo poi definire diverse fasi che spinsero circa altri 3500 cittadini elvetici a un rimpatrio di maggiore permanenza, nel corso di tutta la guerra.[15] [ 93 ]Le prime intenzioni di tornare in patria si manifestarono tra il maggio e il giugno 1939. Alcuni concittadini, infatti, in particolare nella colonia di Milano, auspicarono un immediato rientro presagendo che dopo lo scoppio del conflitto avrebbero avuto difficoltà a rimpatriare.[16] Anche il console di Svizzera Biaggi de Blasys prese posizione in loro favore, in quanto temeva le difficoltà professionali a cui sarebbero andati incontro rimanendo in Italia: «Temo pertanto che codesto ufficio dovrà forzatamente rassegnarsi e prepararsi ad occuparsi della stragrande maggioranza dei lavoratori qui residenti, - i quali, ripeto, presto o tardi, con otsenza preavviso, saranno obbligati a rimpatriare. Non possiamo chiedere ai nostri connazionali [...] di rimanere in un Paese dove sono dei tollerati, e dove finiranno per trovarsi in serie difficoltà finanziarie e morali. Ed è doverosa la loro sistemazione in Patria, anche a costo di eliminare a nostra volta quegli elementi stranieri [,..].»[17] E come previsto, l’entrata in guerra dell’Italia ebbe degli inevitabili contraccolpi economici generando disoccupazione e dando inizio al rimpatrio di molti svizzeri impiegati presso imprese italiane o elvetiche. Fu per esempio il caso dei dipendenti della ditta di spedizione svizzera Gondrand, costretta a ricorrere al licenziamento di parte del proprio personale.

Nel febbraio 1941 il governo fascista ordinò poi il rimpatrio forzato di tutti gli stranieri che vivevano nel Mezzogiorno (ad eccezione dei cittadini tedeschi) e quindi anche dei concittadini elvetici. Tuttavia, il loro espatrio forzato fu scon- giurato grazie alle trattative diplomatiche tra Svizzera e Italia, e in particolare in cambio di un credito concesso dal Consiglio federale a Roma.[18] Tali accordi permisero così alle colonie elvetiche un trattamento privilegiato e la continuazione parziale delle proprie attività.

In seguito all’occupazione tedesca, dopo il settembre 1943, altre richieste di rimpatrio vennero espresse, per esempio dalle colonie svizzere di Roma e Firenze. Se i 38 cittadini residenti a Firenze riuscirono in effetti a valicare il confino svizzero, ciò non fu possibile per quelli di Roma.[19] Nel frattempo infatti, la Confederazione espresse il suo dissenso riguardo all’organizzazione di un rimpatrio collettivo. Il 25 settembre Jenner, ministro della DAE, riferì alla legazione di Roma che nonostante le autorità federali non si potessero opporre a un rimpatrio temporaneo o definitivo, tenendo conto delle condizioni di lavoro in Svizzera, la direttiva era quella di non incoraggiare il rimpatrio a meno che le condizioni non lo rendessero assolutamente necessario. A riprova del buon senso di tali direttive, Jenner affermò che la maggior parte dei rimpatriati aveva rimpianto il ritorno per le difficoltà insormontabili che si trovavano a dover affrontare in Svizzera. Un rimpatrio collettivo non era


Giannò: Gli svizzeri rimpatriati dall'Italia negli anni della Seconda guerra mondiale [ 94 ]dunque auspicabile, optando piuttosto per mettere al sicuro donne e bambini nelle vicine campagne.[20]

Nel 1944, malgrado l’iniziativa promossa dal ministro di Roma e da vari consoli per rimpatriare i concittadini che temevano i bombardamenti e mani- festarono il desiderio di tornare in patria, Jenner reiterò che questi avrebbero dovuto organizzare individualmente il proprio ritorno. Le ragioni che egli citò, nel rifiutare l’organizzazione di un rimpatrio di massa, furono diverse. In primo luogo, la Confederazione non aveva alcun dovere di occuparsi del loro rimpatrio, essendo essi emigrati di propria volontà. Inoltre, egli riteneva che per salvaguardare la loro incolumità era «préférable pour les intéressés de chercher un abri à l’intérieur du pays, même si les Autorités fédérales devaient leur allouer temporairement des secours»: un rimpatrio li avrebbe infatti messi in pericolo poiché le linee ferroviarie erano interrotte e la zona era bombardata. Tuttavia, asserì che avrebbe fatto eccezione per il caso dei concittadini discriminati: «[I]l conviendrait naturellement de faciliter [...] le déplacement des Suisse qui viendraient à être frappés par une telle mesure et dont la seule alternative paraîtrait être de rentrer au pays.»[21] Gli svizzeri che rimpatriarono si organizzarono quindi per lo più in modo individuale.


Gli ebrei svizzeri di ritorno dall'Italia


La questione degli ebrei svizzeri in Italia fu affrontata in due particolari momenti. Nell’autunno del 1938, il regime fascista promosse i decreti razziali. Si trattava di decreti persecutori che limitavano gli ambiti di vita civile degli «ebrei» ita- liani, vietando per esempio i matrimoni misti o la funzione dirigenziale nelle fabbriche ed escludendoli dalle scuole, laddove si vietava agli ebrei stranieri di risiedere in Italia e si revocava la cittadinanza ai naturalizzati dopo il 1919. In seguito, nell’autunno del 1943, con l’occupazione tedesca, la neocostituita Repubblica Sociale Italiana aderì alle leggi razziali nazionalsocialiste decretando l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità residenti in Italia, il loro internamento e il sequestro dei loro beni.[22] Fu dunque in questi due momenti che la DAE e i consolati delle città italiane presero atto della necessità di provvedere alla difesa dei propri concittadini e dei loro interessi.

In seguito ai decreti razziali dell’autunno 1938, la legazione svizzera comunicò alla DAE l’urgenza di eseguire un primo censimento degli ebrei svizzeri residenti in ognuna delle giurisdizioni italiane e di dare delle direttive precise ai conso[ 95 ]lati.[23] Il censimento evidenziò la presenza di 129 cittadini svizzeri di discendenza ebraica residenti in Italia, 44 uomini, 38 donne, 47 bambini.Cite error: Invalid <ref> tag; refs with no name must have content

Sin dai primi decreti razziali, la DAE ritenne preferibile «osservare come queste misure saranno applicate nella pratica e cercare di salvaguardare i nostri interessi caso per caso».[24] Gli ebrei svizzeri, da parte loro, si divisero tra coloro che desideravano restare in Italia e coloro che, invece, volevano rimpatriare. Nelle lettere dei vari consolati, le osservazioni riguardanti la situazione sembravano molto tranquillizzanti e ancor di più lo furono in seguito alle nuove direttive del 6 ottobre 1938, in cui il Gran Consiglio Fascista sancì una serie di nuovi criteri per definire l’appartenenza alla razza ebraica[25] e fissò alcune eccezioni legate all’età (maggiori di 65 anni), ai meriti della propria famiglia[26] oppure, di particolare interesse nel caso degli ebrei svizzeri, al matrimonio contratto con cittadini italiani. Facendo presagire un trattamento particolarmente favorevole, il 10 novembre 1938 il ministro della legazione di Svizzera Ruegger e il conte Ciano decisero che il caso degli ebrei svizzeri sarebbe stato analizzato di volta in volta, grazie anche all’esiguità della loro presenza in Italia. Le famiglie più meritevoli, poi, avrebbero goduto dell’esonero dell’espulsione, tanto quanto gli ebrei con più di 65 anni o sposati a una persona di «razza» italiana. Il 25 novembre 1938 fu dunque inviata dalla legazione svizzera una lista con una decina di casi - i più «raccomandabili» - affinché fosse loro concessa la permanenza in Italia, seguita da una richiesta di altri dieci casi «speciali». Alcuni di questi, tuttavia, nell’attesa di una risposta e temendo il peggio, decisero di rimpatriare. Un primo gruppo partì dall’Italia nel gennaio 1939, mentre nel marzo dello stesso anno tornarono in Svizzera tre famiglie.[27] Altri dovettero attendere marzo per ricevere l’autorizzazione di restare in Italia. Naturalmente, la scelta di analizzare caso per caso, nonostante le rassicura- zioni da parte dei consolati, creò alcune situazioni di pericolo, in alcuni casi risolti, in altri no. Fu per esempio il caso di Frieda K., cittadina svizzera di «razza» ebraica e fede cattolica che, sposata con l’italiano Silvio B., avrebbe dovuto essere automaticamente autorizzata al mantenimento della propria residenza in Italia. Tuttavia, nell’ottobre 1939 fu citata in Pretura, condannata a 15 giorni di prigione con la condizionale e a duecento lire di multa, in quanto non si era annunciata al Municipio.[28]

La seconda spinta al rimpatrio ebbe inizio a seguito del decreto del 30 novembre 1943 secondo il quale gli ebrei residenti in Italia, di qualsiasi nazionalità, dovevano essere internati e i loro beni confiscati. Il decreto gettò nel caos i consolati di Svizzera in Italia. Il console generale Franco Brenni, che aveva [ 96 ]nel frattempo censito una ventina di concittadini di discendenza ebraica in Italia, reagì immediatamente inviando a tutti i Capi di Provincia una circolare in cui si esigeva che tale decreto fosse revocato agli ebrei di cittadinanza svizzera. La Svizzera non avrebbe infatti accettato alcuna discriminazione, né la requisizione dei loro beni.[29] In casi estremi, essa avrebbe semmai organizzato il loro rientro, tutelandone in Italia i beni immobili. La DAE chiese quindi ai consoli di intervenire qualora dovessero riscontrare dei soprusi da parte del regime fascista e di provvedere al loro rimpatrio immediato nel caso di condizioni di vita intollerabili. Grazie a questa pronta reazione i cittadini ebrei svizzeri furono esonerati dagli ordini di confisca e di internamento, anche se si registrarono diversi incidenti risolti dopo un ulteriore intervento da parte della DAE e dei rispettivi consoli.

Nel marzo 1944, le loro condizioni furono ulteriormente inasprite costringendoli al rimpatrio entro una determinata data. Una lettera del 23 marzo 1944 del Ministero dell’Interno-Direzione generale per la demografia e la razza, diretta alla prefettura di Novara, ricordò che tutti gli ebrei, di qualsiasi nazionalità, dovevano essere inviati nei campi di concentramento e i loro beni confiscati e che «per motivi di carattere politico-razziale, vanno quindi applicate anche nei confronti dei cittadini svizzeri per i quali risulti in modo certo l’appartenenza alla razza ebraica». Tuttavia si permise loro di organizzare, entro certi limiti di tempo, il rimpatrio.[30] Un’ulteriore comunicazione del 4 giugno 1944 dell’Ispettorato generale della razza annunciò che la Repubblica Sociale Italiana avrebbe permesso alla Svizzera - come agli altri paesi che avevano manifestato interesse per i concittadini ebrei residenti in Italia (esclusi naturalmente i paesi nemici o occupati dai tedeschi) - di aiutarli. Fu quindi permesso il rimpatrio entro un certo limite di tempo agli ebrei svizzeri ancora residenti in Italia, e fu concertata una modalità di salvaguardia dei loro beni con il «sequestro a favore degli Stati interessati con riserve di trattative future per il trasferimento dei beni nei Paesi di origine degli ebrei».[31] La DAE cercò di ottenere alcune facilitazioni già ottenute per gli svizzeri non ebrei, quali per esempio la designazione di amministratori svizzeri per le imprese elvetiche (cosa che fece anche in Francia).[32] [ 97 ]Svizzera e Cantone Ticino confrontati con il rimpatrio

Già in Italia, alcuni concittadini della colonia di Milano provvidero a costituire a fine 1942 una «Società mutua d’assicurazione danni di guerra» al fine di mantenere il capitale svizzero in Italia e sostenere anche nel dopoguerra la posizione economica e industriale raggiunta da diverse famiglie svizzere residenti in Italia da più generazioni.[33]

Su suolo elvetico, il rientro di massa richiese da parte della Confederazione l’organizzazione di strutture che si occupassero della loro accoglienza e assistenza per bisogni primari (alloggio, vitto, vestiario) e per quelli di lungo termine (occupazione professionale). In primo luogo, i rimpatriati furono accolti alla frontiera da appositi commissariati che li avrebbero poi indirizzati verso campi di internamento oppure «liberati» nelle strutture apposite (hotel, pensioni 0taltro).[34] I meno fortunati, senza risorse finanziarie proprie e sprovvisti di un adeguato sostegno da parte dei famigliari, furono invece internati alla stregua dei rifugiati di altre nazionalità, malgrado godessero di particolari condizioni di accoglienza.[35]

In un secondo tempo, poi, essi venivano assistiti dalla Confederazione e da enti privati, allo scopo di essere reintegrati nella società d’origine. In particolare, nel dicembre 1938, a seguito delle numerose richieste di assistenza ricevute proprio da rimpatriati, il «Soccorso svizzero d’inverno» decise di creare un’apposita struttura che si occupasse del loro caso specifico. Insieme ad altri enti statali e caritativi, fondò quindi la «Zentralstelle für Rückwandererhilfe» con sede a Zurigo.[36] Tra il 1938 e il 1941, sulla spinta dei nuovi arrivi, furono aperte altre nove filiali.[37] Delle sedi ticinesi di Lugano e Bellinzona non abbiamo purtroppo informazioni di rilievo, se non che la sede di Lugano fu costituita il 1o luglio 1940 con il compito di assistere i rimpatriati in Ticino e nelle valli italiane dei Grigioni e che cessò la sua attività alla fine del 1947, quando l’incarico fu trasferito al Servizio cantonale dell’assistenza.[38] Dal canto loro, i rimpatriati fondarono la «Federazione delle Associazioni degli Svizzeri rimpatriati dall’Estero».[39]

I finanziamenti per aiutare i rimpatriati provennero in gran parte dalla Con- federazione e in parte minore dai Cantoni e da raccolte di fondi avvenute presso le varie colonie svizzere nel mondo e presso gli svizzeri in patria. Comples- sivamente, tra il 1o settembre 1939 e l’inizio del 1946, la Confederazione pagò per circa 60’000-65’000 rimpatriati la cifra di 54 milioni di franchi;[40] nell’ottobre 1946 stanziò poi un ulteriore credito di 75 milioni di franchi per [ 98 ]soccorrere gli svizzeri rimasti all’estero e quelli rimpatriati. Da parte sua, il Cantone Ticino assistette i bambini rimpatriati nel novembre 1940 con un sussidio di 10’000 franchi[41] e contribuì nell’ottobre 1946 al credito federale con 400’000 franchi. Tra le colonie svizzere che si mobilitarono, ricordiamo il consolato di Svizzera a New York che nel gennaio 1944 lanciò una colletta presso i connazionali e la colonia svizzera della Renania che contribuì ad aiutare gli svizzeri rientrati in patria a causa dei bombardamenti di cui erano rimasti vittime.[42] Anche la colonia svizzera in Italia, poi, si dimostrò solidale attraverso l’iniziativa del direttore generale della Ditta Gondrand a Milano, Claude Petitpierre, preoccupato della sorte degli impiegati svizzeri costretti al rimpatrio poiché rimasti senza lavoro.[43] Quest’ultimo intraprese infatti una raccolta di fondi versati all’«Ufficio centrale di soccorso ai reduci dall’estero». La moglie di Brenni, inoltre, fece costruire a Como, nel 1944, una baracca di legno per accogliere gli svizzeri provenienti dal Sud Italia e desiderosi di rimpatriare (la casa era stata messa a disposizione dalla Maison Suisse Griesser di Como).[44] Per far fronte alle spese massicce, tra il 1942 e il 1945 furono pure organizzate delle campagne di raccolta di fondi in Svizzera (fig. 1).[45] Anche in Ticino la stampa, molto sensibile alla problematica dei rimpatriati durante tutto l’arco degli anni Quaranta[46] (oltre che dei rifugiati), invitò a più riprese i lettori a fare delle donazioni di denaro, vestiti e mobilio facendo leva sui sentimenti di solidarietà nei confronti dei compatrioti della Quinta Svizzera (fig. 2). Per Georges Wagnière (ministro di Svizzera negli anni Trenta) si trattava di «dimostrar loro che la solidarietà confederale non è una vana parola, è dovere sacro del popolo svizzero».[47]

Le esigenze finanziarie erano infatti alte, a causa delle molteplici e variegate mansioni svolte dalla sede centrale di Zurigo dell’«Ufficio Centrale di soccorso ai rimpatriati dall’estero» e dalle sue filiali, e a causa dell’alto e crescente numero di assistiti. Gli obiettivi prefissati, come si legge nel comunicato della «Conferenza per il soccorso ai rimpatriati» tenutasi a Zurigo nell’ottobre 1942 erano «di portar soccorso materialmente e moralmente allo svizzero tornato dall’estero caduto senza propria colpa nel bisogno, ed ai suoi familiari».[48] La Conferenza intendeva infatti procurare al rimpatriato «informazioni, consigli e provvedimenti», oltre che accordare denaro, vestiti e viveri, concedere borse di studio, finanziamenti per il perfezionamento professionale e prestiti, assisterlo nella ricerca del lavoro.

Il numero di assistiti era considerevole. Nel 1941 la «Conferenza per il soccorso ai rimpatriati» offrì sostegno a 3283 rimpatriati con una somma comples[ 99 ]Fig. 1: Manifesto per la raccolta di fondi in favore dei rimpatriati. Fonte: Archivio federale svizzero.



siva di oltre 250’000 franchi. Nel 1942 gli assistiti furono 2977 in parte aiutati grazie a delle campagne di raccolta di fondi. Il 1943 registrò un peggioramento delle possibilità di soccorrere i rimpatriati, poiché in quell’anno si contarono 2659 rimpatriati spogliati di tutto e bisognosi quindi di un tipo di aiuto più rapido e capillare, anche se molti avevano mantenuto dei beni nei paesi d’adozione e chiedevano solo un prestito fino al trasferimento dei loro averi. Al calo del 1944 con 2236 casi, seguì un rimpatrio di massa nel 1945 con 5006 persone che provocò un raddoppio dei costi[49] e un notevole aumento di lavoro da parte delle strutture di accoglienza. Per questo motivo furono indette delle nuove collette pubbliche.

Dal punto di vista della reintegrazione di questi emigranti nella loro stessa patria, la situazione cambiava soprattutto a seconda del contatto più o meno forte mantenuto con la madrepatria. In generale, coloro che tornarono all’inizio o durante la guerra avevano amici o parenti in Svizzera, mentre quelli rim- patriati dopo la guerra non avevano più contatti con il paese: alcune famiglie erano all’estero da più generazioni e avevano ormai acquisito altri costumi [ 100 ]e mentalità. Le attese di querti ultimi furono spesso deluse a causa delle dif- ficoltà che dovettero affrontare, alimentando il malcontento nei confronti delle autorità. Il rancore, dovuto alla difficile reintegrazione nella società elvetica, sfociò talvolta in rimostranze pubbliche. A titolo di esempio, quando nel gennaio 1944 il Consiglio federale stanziò un credito per sussidiare gli studi dei rifugiati (italiani per lo più), il padre di uno studente svizzero rimpatriato scrisse al Corriere del Ticino chiedendo che cosa avesse nel frattempo fatto, invece, «per aiutare gli studenti svizzeri rimpatriati», poiché molti avevano dovuto interrompere gli studi: «sarebbe troppo chiedere che il Consiglio federale equiparasse gli studenti svizzeri rimpatriati agli studenti stranieri rifugiati?»[50] E nell’agosto 1945, questo sentimento di rancore si tradusse in una petizione lanciata dall’«Associazione svizzera dei rimpatriati dall’estero» «in favore dei rimpatriati e dei creditori svizzeri verso l’estero», al fine di ottenere degli indennizzi per le perdite subite.[51]


Conclusione

Nello studio del rimpatrio svizzero dall’Italia durante il periodo della Seconda guerra mondiale, abbiamo raccolto cifre e nominativi. Dei 16’700 svizzeri residenti in Italia all’inizio del secondo conflitto mondiale, sappiamo che circa 3500 (ovvero poco più dio 1/5) tornarono in Svizzera. Di loro conosciamo sommariamente le difficoltà di permanenza in Italia e le trattative dei consolati e della legazione per preparare il rimpatrio. Bloccato il ritorno di massa dalle autorità federali, solo una parte di loro fece volontariamente ritorno grazie a piccoli convogli organizzati dai consolati o con mezzi propri. Malgrado la loro volontà di restare, gli svizzeri perseguitati a causa della loro discendenza o fede ebraica (129) costituirono un caso a parte nelle trattative diplomatiche italo-elvetiche. Ottennero protezione dalle autorità elvetiche e concessioni da parte delle autorità fasciste e nazionalsocialiste e furono gradualmente rimpatriati dal 1938 al 1944, mano a mano che le condizioni peggiorarono. Le donne ex-svizzere che si ricongiunsero volontariamente con la famiglia d’origine, una settantina quelle registrate dal Comando di polizia del Cantone Ticino, spinte al rimpatrio per l’assenza del coniuge, per motivi politici o per le conseguenze della guerra, furono inizialmente trattate come gli altri rifugiati ma ben presto godettero di particolari privilegi. Esse furono solitamente accolte e «liberate» presso le proprie famiglie in Ticino, [ 101 ]Fig. 2: Manifesto per la raccolta di fondi in favore dei rimpatriati. Annuncio pubblicato sul Corriere del Ticino, 12 maggio 1943. Fonte. Archivio di Stato del Canton Ticino, Bellinzona.



laddove gli svizzeri che non avevano congiunti in patria e non avevano la possibilità di sostentarsi furono internati per poi approfittare dell’aiuto della «Zentralstelle für Rückwandererhilfe».

Il caso dei rimpatriati svizzeri dall’Italia presenta dunque dei rimpatriati volontari, che approfittarono della possibilità di tornare in patria per rifugiarsi dalla crisi economica e dai bombardamenti, e dei rimpatriati «forzati» poiché discriminati e perseguitati nel paese di adozione. Sappiamo che le donne ex-svizzere si stabilirono durante il loro soggiorno in Ticino, ma non sappiamo invece quanti cittadini elvetici provenienti dall’Italia vi si stabilirono. La loro permanenza in Svizzera fu per alcuni provvisoria, per altri permanente. Provvisorio fu il ritorno delle cittadine ex-svizzere (non delle vedove che furono «reintegrate» riacquisendo la nazionalità elvetica), che raggiunsero mariti italiani. Provvisorio o permanente fu il rimpatrio degli svizzeri che fuggirono dalla disoccupazione, dalle bombe e dalla discriminazione, a dipendenza del grado di integrazione raggiunto in Italia, rispettivamente dei contatti mantenuti in patria, nonché delle possibilità economiche e sociali presentate dai due paesi. Ogni caso presenta [ 102 ]quindi una situazione diversa, e non abbiamo purtroppo alcun dato che ci per- metta di stabilire quanti di loro, nel dopoguerra, decisero di restare in Svizzera, tornare in Italia o partire per altre mete. Attraverso un ulteriore studio sarebbe interessante stabilire i canali di integrazione degli svizzeri rimpatriati che scelsero di restare, come pure le modalità del rinnovato espatrio alla fine della guerra per coloro che invece scelsero di ripartire, vuoi per il domicilio precedente vuoi per altre destinazioni. L’ulteriore spoglio di fondi archivistici, e forse alcune testimonianze orali potranno chiarire questi interrogativi.


Note

1 Per esempio: C. Ludwig, La politique pratiquée par la Suisse à V égard des réfugiés au cours des années 1933 à 1955, Berna 1957; Commissione indipendente d’esperti, La Svizzera, il nazionalsocialismo e la Seconda Guerra mondiale: rapporto finale, Locarno 2002; A. Lasserre, Frontières et camps. Le refuge en Suisse de 1933 à 1945, Lausanne 1995, pp. 236-237; E. Flury-Dasen, «Kriegsgeschädigte Auslandschweizer in der Nachkriegszeit 1945-1961», Les Suisses de l’étranger au XXème siècle (Studi e fonti, vol. 28), Berna 2002, pp. 87-121; M. Cerutti, «Les Suisses d’Italie à l’époque du fascisme», Ibid., pp. 216-224; S. Winkler, Die Schweiz und das geteilte Italien. Bilaterale Beziehungen in einer Umbruchphase 1943-1945, Basel 1992, pp. 381-391; P. Flückiger, G. Bagnoud, Les réfugiés civils et la frontière genevoise durant la deuxième guerre mondiale: fichiers et archives, Ginevra 2000.

2 S. Hofmann, «Die Heimschaffung der Schweizer Staatsangehörigen aus Ostpreussen 1944-1948», Studi e fonti (vedi nota 1), pp. 123-227; B. May Broda, «Auslandschweizerinnen, ehemalige Schweizerinnen - ihre Rückwanderung aus Deutschland 1939-1948», in: Arbeitsgruppe Frauen- geschichte Basel (Hg.), Auf den Spuren weiblicher Vergangenheit, Zurigo 1988, pp. 251-261. Vi sono inoltre diverse tesi per lo più non pubblicate: O. H. Blättler, Die privat- une volks-wirtschaftliche Stellung des schweizerischen Rückwanderers, tesi, Università di Berna 1943; F. Keller, Die Eingliederung der heimgekehrten Auslandschweizer - Ein Beitrag zu diesem Problem unter besonderer Berücksichtigung der Rückwanderer aus Deutschland, tesi, Soziale Frauenschule Zürich, Zurigo 1949; R. Stössel, Die Rückwanderung von Auslandschweizern seit 1939, Berna 1958; J. Voegeli, Die Rückkehr der Russlandschweizer 1918-1945, Memoria di licenza, Università di Zurigo 1979.

3 Archivio federale di Berna (d’ora in poi AFS), E 2001 (D), vol. 234, «Rivista Svizzera d’Utilità Pubblica», agosto-settembre 1945. Fino all’agosto 1945 si calcolava che solo 7000 di questi erano nel frattempo ritornati al luogo di provenienza. Secondo Broda i commissariati situati alle frontiere calcolarono 68’047 cittadini svizzeri rimpatriati tra il 23 settembre 1939 e il 31 dicembre 1948. Essi registrarono però solamente coloro che necessitavano di aiuto. La cifra complessiva degli avvenuti rimpatri durante la Seconda guerra mondiale sarebbe quindi ancora sconosciuta. Cf. Broda (vedi nota 2), p. 253 e nota 16.

4 Hofmann (vedi nota 2), mostra la reticenza da parte delle autorità elvetiche nell’organizzare un rimpatrio collettivo dei concittadini residenti nella Prussia orientale tra il 1944 e il 1948. La medesima presa di posizione riguardo ai residenti in Italia è confermata dall’analisi dei documenti da noi consultati presso l’AFS.

5 Si veda il rapporto finale del console generale: F. Brenni, Aperçu très sommaire de quatre années et plus de gestion Mai 1942-Juin 1946. In: AFS, E 2400 Mailand 6. Consulat Général de Suisse à Milan. [ 103 ] 6 Archivio di Stato del Canton Ticino, Bellinzona (d’ora in poi ASTI), Fondo «Internati, 1943-1945». I dossier ivi conservati sono circa 13’000.

7 Quarantun donne di età compresa tra i 23 e i 40 anni; ventisei tra i 41 e i 66 anni; di una persona anziana non si conosce la data di nascita.

8 I rifugiati potevano essere liberati dai campi di internamento e ricevere un permesso di alloggio presso dipendenti di lavoro, alberghi o presso privati. Per ottenere la liberazione, era tuttavia necessario dimostrare l’autosufficienza finanziaria oppure presentare un garante morale e finanziario che si impegnasse a pagare le spese di vitto e alloggio.

9 Le condizioni di accoglienza per le ex-svizzere furono molto dure al confine con la Germania, come lotfurono probabilmente anche in Ticino, prima delle nuove norme stipulate nei loro confronti. Cf. Broda (vedi nota 2), p. 253.

10 «Instructions concernant le refoulement ou l’admission des étrangers qui entrent clandestinement en Suisse», inviate dal Dipartimento federale di giustizia e polizia di Berna, 23 dicembre 1942. In: ASTI, Fondo «Polizia politica», scatola 94.3.2.

11 «Istruzioni relative ai profughi dall’Italia», inviate dal Dipartimento federale di giustizia e polizia, Divisione della polizia (Berna) «Ai comandi delle gendarmerie di tutti i cantoni. Alla direzione generale delle Dogane svizzere e direttamente alle direzioni circondariali delle Dogane», 14 settembre 1943. In: Ibid.

12 «Destiné uniquement aux autorités. Instructions du département fédéral de justice et police concernant l’hébergement des réfugiés du 20 mars 1943». In: Ibid.

13 AFS, E 2001 (D) 1000/93, vol. 236, Rapporto del capo della DAE, dicembre 1939.

14 Ibid., p. 218.

15 Ibid. Cf. M. Fahrni, Le problème des Suisses de Vétranger. Aspects économiques et sociaux, Losanna 1973, p. 118. Quest’ultimo segnala il numero di rimpatri avvenuti di anno in anno tra il 1939 e il 1945: 524 nel 1939, 362 nel 1940, 467 nel 1941, 394 nel 1942, 711 nel 1943, 688 nel 1944 e 410 nel 1945.

16 AFS, E 2001 (D) 1000/93, vol. 236, Lettera del console generale di Svizzera Bavier alla legazione di Roma, 11 maggio 1939.

17 Ibid., Lettera di Biaggi all’Ufficio federale dell’Industria delle Arti e Mestieri del lavoro, 21 giugno 1939.

18 Cerutti (vedi nota 1), pp. 218-220.

19 Ibid., Lettera della legazione di Svizzera alla DAE, 14. 9. 1943; Lettera del Consolato svizzero di Firenze ai membri della propria colonia, 22 settembre 1943 e articolo «Ankunft von Schweizern aus Italien», Neue Zürcher Zeitung, 7 ottobre 1943.

20 Ibid., Lettera di Jenner alla legazione svizzera di Roma, 18 settembre 1943.

21 Ibid., Lettera di Jenner alla legazione svizzera di Roma, 2 settembre 1944.

22 Ibid., Ordine di polizia no 5 del Ministero dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana.

23 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera della legazione svizzera di Roma alla DAE, 14 settembre 1938. I cittadini elvetici che non appartenevano alla religione ebraica potevano richiedere al Servizio di Stato civile del Dipartimento federale di giustizia e polizia (Berna) un atto di famiglia in cui fosse stabilita la loro «arianità». La legazione di Svizzera segnalò però ai consolati, in una circolare del 20 dicembre 1938, di non utilizzare termini razziali quali «ariano» o «razza israelita»: visto che in Svizzera non esisteva una legislazione basata sull’appartenenza razziale, le autorità elvetiche si sarebbero infatti limitate a dichiarare l’appartenenza religiosa dei propri concittadini. Cf. AFS, E 2001 (D) 1000/93, vol. 236. Di questi anni è pure la questione legata alle Scuole svizzere e alla decisione da parte della DAE di non accettare le iscrizioni di troppi studenti ebrei non svizzeri per non alienarsi le simpatie degli italiani e quindi incorrere in assenteismo che avrebbe provocato ingenti perdite finanziarie. Cf. Ibid., Lettera alla legazione di Roma, 17 settembre 1938.

24 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera di Feldscher (DAE) alla Divisione della polizia del Dipartimento federale di giustizia e polizia, 9 novembre 1938. [ 104 ] 25 Ibid., Lettera inviata alla legazione di Svizzera a Roma, 12 settembre 1938. Libera traduzione dal francese.

26 Di norma considerati tali se ambedue i genitori appartenevano alla «razza ebraica», con eccezioni nel caso in cui l’altro genitore fosse straniero o nel caso in cui la persona professasse la religione ebraica. Osserviamo che nel nazionalsocialismo erano considerati ebrei anche i figli di un solo genitore ebreo.

27 Nel caso di famigliari onorati per motivi patriottici, quali deceduti o feriti di guerra e membri del Partito Fascista in determinati anni. Tra i meriti di alcuni svizzeri era considerata per esempio la creazione di industrie che avevano dato lavoro a molti disoccupati svizzeri e italiani.

28 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera della legazione di Svizzera (Roma) alla DAE di Berna, 20. 3. 1939.

29 Ibid., Lettera della signora K. al consolato di Milano (18 settembre 1940), che a sua volta scrisse alla legazione di Roma comunicando l’avvenuto (21 ottobre 1940).

30 Egli scrisse: «La Svizzera, che non conosce distinzioni razziali, mette tutti i suoi concittadini sullo stesso piano ed a tutti accorda con la stessa intensità, la sua protezione. L’arresto di un cittadino svizzero, di razza ebraica, domiciliato nel territorio nazionale, rappresenterebbe quindi null’altro che l’arresto di un cittadino svizzero. [...] Nel caso concernente i miei concittadini di qualsiasi razza, la nazionalità è quindi determinante, e di conseguenza non ci possono essere diverse misure di trattamento nei confronti di cittadini elvetici. [...] la sola cosa che potrebbe in un certo qual senso apparire giustificata, sarebbe l’allontanamento dei cittadini svizzeri, di razza ebraica, dal territorio nazionale. In tal senso però giova ancora osservare che la proprietà dei predetti cittadini è posta sotto la diretta tutela del Governo Federale e dei suoi rappresentanti e quindi non passibile di requisizione, o quanto meno di appropriazione.» Ibid., Lettera di Brenni ai Capi di Provincia, 1 dicembre 1943.

31 Archivio Centrale dello Stato, Roma, ministero Interni, PS direzione generale degli Affari generali e riservati A16, «stranieri» (1930/56), b. 3, fol. 19A (Ebrei Stranieri-Svizzeri). «Appunto. Trattamento degli ebrei stranieri nel Reich e nella zona della Grecia già occupata dalla truppa italiana», s. d. Una copia del documento è conservata in: ASTI, Fondo Broggini.

32 Ibid., «Appunto per il duce», 16 maggio 1944, Copia per il fascicolo Ebrei Svizzeri. Una copia del documento è conservata in: ASTI, Fondo Broggini.

33 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera della DAE al delegato commerciale Max Troendle, 31 marzo 1944.

34 Cerutti (vedi nota 1), pp. 223-224. La società assicurò circa 2000 membri.

35 Furono in totale ventitré i commissariati aperti lungo la frontiera. Cf. AFS, E 2001 (D), vol. 234, Revue Suisse d’Utilité Publique, 8, 9, 84, Zurigo 1945, pp. 298-299.

36 Tra le norme appositamente stabilite, troviamo per esempio il divieto di indagare sulle vicende che li avevano condotti alla frontiera elvetica, con l’intento di preservare la loro vita privata. Cf. Ibid., Lettera del Servizio di stato maggiore generale ai Comandi territoriali, Berna, 8. 10. 1945.

37 «Bureau Central du secours pour les rapatriés» in francese, «Ufficio Centrale di soccorso ai rimpatriati dall’estero» o «Ufficio centrale di soccorso ai reduci dall’estero» in italiano. Tra le organizzazioni che la costituirono vi erano: l’«Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro», la Divisione di polizia del Dipartimento di giustizia e polizia, il Segretariato degli svizzeri all’estero della Nuova società elvetica, il «Soccorso svizzero d’inverno», la fondazione «Pro Juventute», la fondazione «Pro Senectute», la «Società svizzera Caritas», l’«Associazione dei rimpatriati svizzeri dall’estero», la «Società evangelica svizzera per le missioni interne e beneficenza», la «Società dei commercianti svizzeri», l’«Ufficio federale di guerra per l’assistenza» e la «Federazione delle Associazioni degli Svizzeri rimpatriati dall’Estero».

38 A Basilea, Berna, Ginevra, Losanna, Lugano, Lucerna, Neuchatel, Bellinzona e San Gallo (queste ultime due furono chiuse nel 1945). Cf. AFS, E 2001 (D), vol. 234, «Jahresrechnung 1941».

39 Messaggio del Consiglio di Stato al Gran Consiglio circa un aiuto straordinario ai ticinesi rimpatriati, 25 aprile 1947. [ 105 ] 40 Nel Comitato nazionale figuravano quattro rappresentanti delle sezioni di Sion, La Chaux-de-Fonds, Zurigo e San Gallo, oltre al signor Bee e al signor Bestini per la sezione di Lugano. Cf. Corriere del Ticino, 12 febbraio 1942.

41 Ibid.

42 «Gran Consiglio», Corriere del Ticino, 27 novembre 1940.

43 AFS, E 2001 (D), vol. 234, Lettera di Pilet-Golaz al console Weiss a Colonia, gennaio 1944.

44 Egli aveva infatti dovuto licenziare parte dei suoi impiegati, tra cui molti connazionali, a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia e dell’arresto dell’attività portuale di Genova.

45 Brenni (vedi nota 5).

46 AFS, E 2001 (D), vol. 234, «Jahresrechnung 1941-1945».

47 Nel marzo 1944, sembra che il Ticino fosse «il Cantone con la percentuale più alta di svizzeri reduci dall’estero». Cf. «Necessità dell’ora. L’assistenza agli Svizzeri reduci dall’estero», Corriere del Ticino, 10 marzo 1944.

48 «Soccorriamo i nostri fratelli», Corriere del Ticino, 20 giugno 1940.

49 AFS, E 2001 (D), vol. 234.

50 Ibid., Lettera della «Zentralstelle» a Ernst Scheim, divenuto nel frattempo capo dell’Ufficio centrale federale per le questioni concernenti gli Svizzeri dell’estero, 11 febbraio 1946.

51 «E gli studenti svizzeri rimpatriati?», Corriere del Ticino, 20 gennaio 1944.

52 Il 31 agosto 1945, il Corriere del Ticino parla di 500 morti e di perdite fino a quel momento notificate a 450’000’000 franchi (con previsioni per 800’000’000 franchi).

  1. 1 Per esempio: C. Ludwig, La politique pratiquée par la Suisse à V égard des réfugiés au cours des années 1933 à 1955, Berna 1957; Commissione indipendente d’esperti, La Svizzera, il nazionalsocialismo e la Seconda Guerra mondiale: rapporto finale, Locarno 2002; A. Lasserre, Frontières et camps. Le refuge en Suisse de 1933 à 1945, Lausanne 1995, pp. 236-237; E. Flury-Dasen, «Kriegsgeschädigte Auslandschweizer in der Nachkriegszeit 1945-1961», Les Suisses de l’étranger au XXème siècle (Studi e fonti, vol. 28), Berna 2002, pp. 87-121; M. Cerutti, «Les Suisses d’Italie à l’époque du fascisme», Ibid., pp. 216-224; S. Winkler, Die Schweiz und das geteilte Italien. Bilaterale Beziehungen in einer Umbruchphase 1943-1945, Basel 1992, pp. 381-391; P. Flückiger, G. Bagnoud, Les réfugiés civils et la frontière genevoise durant la deuxième guerre mondiale: fichiers et archives, Ginevra 2000.
  2. 2 S. Hofmann, «Die Heimschaffung der Schweizer Staatsangehörigen aus Ostpreussen 1944-1948», Studi e fonti (vedi nota 1), pp. 123-227; B. May Broda, «Auslandschweizerinnen, ehemalige Schweizerinnen - ihre Rückwanderung aus Deutschland 1939-1948», in: Arbeitsgruppe Frauen- geschichte Basel (Hg.), Auf den Spuren weiblicher Vergangenheit, Zurigo 1988, pp. 251-261. Vi sono inoltre diverse tesi per lo più non pubblicate: O. H. Blättler, Die privat- une volks-wirtschaftliche Stellung des schweizerischen Rückwanderers, tesi, Università di Berna 1943; F. Keller, Die Eingliederung der heimgekehrten Auslandschweizer - Ein Beitrag zu diesem Problem unter besonderer Berücksichtigung der Rückwanderer aus Deutschland, tesi, Soziale Frauenschule Zürich, Zurigo 1949; R. Stössel, Die Rückwanderung von Auslandschweizern seit 1939, Berna 1958; J. Voegeli, Die Rückkehr der Russlandschweizer 1918-1945, Memoria di licenza, Università di Zurigo 1979.
  3. 3 Archivio federale di Berna (d’ora in poi AFS), E 2001 (D), vol. 234, «Rivista Svizzera d’Utilità Pubblica», agosto-settembre 1945. Fino all’agosto 1945 si calcolava che solo 7000 di questi erano nel frattempo ritornati al luogo di provenienza. Secondo Broda i commissariati situati alle frontiere calcolarono 68’047 cittadini svizzeri rimpatriati tra il 23 settembre 1939 e il 31 dicembre 1948. Essi registrarono però solamente coloro che necessitavano di aiuto. La cifra complessiva degli avvenuti rimpatri durante la Seconda guerra mondiale sarebbe quindi ancora sconosciuta. Cf. Broda (vedi nota 2), p. 253 e nota 16.
  4. 4 Hofmann (vedi nota 2), mostra la reticenza da parte delle autorità elvetiche nell’organizzare un rimpatrio collettivo dei concittadini residenti nella Prussia orientale tra il 1944 e il 1948. La medesima presa di posizione riguardo ai residenti in Italia è confermata dall’analisi dei documenti da noi consultati presso l’AFS.
  5. 5 Si veda il rapporto finale del console generale: F. Brenni, Aperçu très sommaire de quatre années et plus de gestion Mai 1942-Juin 1946. In: AFS, E 2400 Mailand 6. Consulat Général de Suisse à Milan.
  6. 6 Archivio di Stato del Canton Ticino, Bellinzona (d’ora in poi ASTI), Fondo «Internati, 1943-1945». I dossier ivi conservati sono circa 13’000.
  7. 7 Quarantun donne di età compresa tra i 23 e i 40 anni; ventisei tra i 41 e i 66 anni; di una persona anziana non si conosce la data di nascita.
  8. 8 I rifugiati potevano essere liberati dai campi di internamento e ricevere un permesso di alloggio presso dipendenti di lavoro, alberghi o presso privati. Per ottenere la liberazione, era tuttavia necessario dimostrare l’autosufficienza finanziaria oppure presentare un garante morale e finanziario che si impegnasse a pagare le spese di vitto e alloggio.
  9. 9 Le condizioni di accoglienza per le ex-svizzere furono molto dure al confine con la Germania, come lotfurono probabilmente anche in Ticino, prima delle nuove norme stipulate nei loro confronti. Cf. Broda (vedi nota 2), p. 253.
  10. 10 «Instructions concernant le refoulement ou l’admission des étrangers qui entrent clandestinement en Suisse», inviate dal Dipartimento federale di giustizia e polizia di Berna, 23 dicembre 1942. In: ASTI, Fondo «Polizia politica», scatola 94.3.2.
  11. 11 «Istruzioni relative ai profughi dall’Italia», inviate dal Dipartimento federale di giustizia e polizia, Divisione della polizia (Berna) «Ai comandi delle gendarmerie di tutti i cantoni. Alla direzione generale delle Dogane svizzere e direttamente alle direzioni circondariali delle Dogane», 14 settembre 1943. In: Ibid.
  12. 12 «Destiné uniquement aux autorités. Instructions du département fédéral de justice et police concernant l’hébergement des réfugiés du 20 mars 1943». In: Ibid.
  13. 13 AFS, E 2001 (D) 1000/93, vol. 236, Rapporto del capo della DAE, dicembre 1939.
  14. 14 Ibid., p. 218.
  15. 15 Ibid. Cf. M. Fahrni, Le problème des Suisses de Vétranger. Aspects économiques et sociaux, Losanna 1973, p. 118. Quest’ultimo segnala il numero di rimpatri avvenuti di anno in anno tra il 1939 e il 1945: 524 nel 1939, 362 nel 1940, 467 nel 1941, 394 nel 1942, 711 nel 1943, 688 nel 1944 e 410 nel 1945.
  16. 16 AFS, E 2001 (D) 1000/93, vol. 236, Lettera del console generale di Svizzera Bavier alla legazione di Roma, 11 maggio 1939.
  17. 17 Ibid., Lettera di Biaggi all’Ufficio federale dell’Industria delle Arti e Mestieri del lavoro, 21 giugno 1939.
  18. 18 Cerutti (vedi nota 1), pp. 218-220.
  19. 19 Ibid., Lettera della legazione di Svizzera alla DAE, 14. 9. 1943; Lettera del Consolato svizzero di Firenze ai membri della propria colonia, 22 settembre 1943 e articolo «Ankunft von Schweizern aus Italien», Neue Zürcher Zeitung, 7 ottobre 1943.
  20. 20 Ibid., Lettera di Jenner alla legazione svizzera di Roma, 18 settembre 1943.
  21. 21 Ibid., Lettera di Jenner alla legazione svizzera di Roma, 2 settembre 1944.
  22. 22 Ibid., Ordine di polizia no 5 del Ministero dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana.
  23. 23 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera della legazione svizzera di Roma alla DAE, 14 settembre 1938. I cittadini elvetici che non appartenevano alla religione ebraica potevano richiedere al Servizio di Stato civile del Dipartimento federale di giustizia e polizia (Berna) un atto di famiglia in cui fosse stabilita la loro «arianità». La legazione di Svizzera segnalò però ai consolati, in una circolare del 20 dicembre 1938, di non utilizzare termini razziali quali «ariano» o «razza israelita»: visto che in Svizzera non esisteva una legislazione basata sull’appartenenza razziale, le autorità elvetiche si sarebbero infatti limitate a dichiarare l’appartenenza religiosa dei propri concittadini. Cf. AFS, E 2001 (D) 1000/93, vol. 236. Di questi anni è pure la questione legata alle Scuole svizzere e alla decisione da parte della DAE di non accettare le iscrizioni di troppi studenti ebrei non svizzeri per non alienarsi le simpatie degli italiani e quindi incorrere in assenteismo che avrebbe provocato ingenti perdite finanziarie. Cf. Ibid., Lettera alla legazione di Roma, 17 settembre 1938.
  24. 25 Ibid., Lettera inviata alla legazione di Svizzera a Roma, 12 settembre 1938. Libera traduzione dal francese.
  25. 26 Di norma considerati tali se ambedue i genitori appartenevano alla «razza ebraica», con eccezioni nel caso in cui l’altro genitore fosse straniero o nel caso in cui la persona professasse la religione ebraica. Osserviamo che nel nazionalsocialismo erano considerati ebrei anche i figli di un solo genitore ebreo.
  26. 27 Nel caso di famigliari onorati per motivi patriottici, quali deceduti o feriti di guerra e membri del Partito Fascista in determinati anni. Tra i meriti di alcuni svizzeri era considerata per esempio la creazione di industrie che avevano dato lavoro a molti disoccupati svizzeri e italiani.
  27. 28 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera della legazione di Svizzera (Roma) alla DAE di Berna, 20. 3. 1939.
  28. 29 Ibid., Lettera della signora K. al consolato di Milano (18 settembre 1940), che a sua volta scrisse alla legazione di Roma comunicando l’avvenuto (21 ottobre 1940).
  29. 30 Egli scrisse: «La Svizzera, che non conosce distinzioni razziali, mette tutti i suoi concittadini sullo stesso piano ed a tutti accorda con la stessa intensità, la sua protezione. L’arresto di un cittadino svizzero, di razza ebraica, domiciliato nel territorio nazionale, rappresenterebbe quindi null’altro che l’arresto di un cittadino svizzero. [...] Nel caso concernente i miei concittadini di qualsiasi razza, la nazionalità è quindi determinante, e di conseguenza non ci possono essere diverse misure di trattamento nei confronti di cittadini elvetici. [...] la sola cosa che potrebbe in un certo qual senso apparire giustificata, sarebbe l’allontanamento dei cittadini svizzeri, di razza ebraica, dal territorio nazionale. In tal senso però giova ancora osservare che la proprietà dei predetti cittadini è posta sotto la diretta tutela del Governo Federale e dei suoi rappresentanti e quindi non passibile di requisizione, o quanto meno di appropriazione.» Ibid., Lettera di Brenni ai Capi di Provincia, 1 dicembre 1943.
  30. 31 Archivio Centrale dello Stato, Roma, ministero Interni, PS direzione generale degli Affari generali e riservati A16, «stranieri» (1930/56), b. 3, fol. 19A (Ebrei Stranieri-Svizzeri). «Appunto. Trattamento degli ebrei stranieri nel Reich e nella zona della Grecia già occupata dalla truppa italiana», s. d. Una copia del documento è conservata in: ASTI, Fondo Broggini.
  31. 32 Ibid., «Appunto per il duce», 16 maggio 1944, Copia per il fascicolo Ebrei Svizzeri. Una copia del documento è conservata in: ASTI, Fondo Broggini.
  32. 33 AFS, E 2001 (D), vol. 173, Lettera della DAE al delegato commerciale Max Troendle, 31 marzo 1944.
  33. 34 Cerutti (vedi nota 1), pp. 223-224. La società assicurò circa 2000 membri.
  34. 35 Furono in totale ventitré i commissariati aperti lungo la frontiera. Cf. AFS, E 2001 (D), vol. 234, Revue Suisse d’Utilité Publique, 8, 9, 84, Zurigo 1945, pp. 298-299.
  35. 36 Tra le norme appositamente stabilite, troviamo per esempio il divieto di indagare sulle vicende che li avevano condotti alla frontiera elvetica, con l’intento di preservare la loro vita privata. Cf. Ibid., Lettera del Servizio di stato maggiore generale ai Comandi territoriali, Berna, 8. 10. 1945.
  36. 37 «Bureau Central du secours pour les rapatriés» in francese, «Ufficio Centrale di soccorso ai rimpatriati dall’estero» o «Ufficio centrale di soccorso ai reduci dall’estero» in italiano. Tra le organizzazioni che la costituirono vi erano: l’«Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro», la Divisione di polizia del Dipartimento di giustizia e polizia, il Segretariato degli svizzeri all’estero della Nuova società elvetica, il «Soccorso svizzero d’inverno», la fondazione «Pro Juventute», la fondazione «Pro Senectute», la «Società svizzera Caritas», l’«Associazione dei rimpatriati svizzeri dall’estero», la «Società evangelica svizzera per le missioni interne e beneficenza», la «Società dei commercianti svizzeri», l’«Ufficio federale di guerra per l’assistenza» e la «Federazione delle Associazioni degli Svizzeri rimpatriati dall’Estero».
  37. 38 A Basilea, Berna, Ginevra, Losanna, Lugano, Lucerna, Neuchatel, Bellinzona e San Gallo (queste ultime due furono chiuse nel 1945). Cf. AFS, E 2001 (D), vol. 234, «Jahresrechnung 1941».
  38. 39 Messaggio del Consiglio di Stato al Gran Consiglio circa un aiuto straordinario ai ticinesi rimpatriati, 25 aprile 1947.
  39. 40 Nel Comitato nazionale figuravano quattro rappresentanti delle sezioni di Sion, La Chaux-de-Fonds, Zurigo e San Gallo, oltre al signor Bee e al signor Bestini per la sezione di Lugano. Cf. Corriere del Ticino, 12 febbraio 1942.
  40. 41 Ibid.
  41. 42 «Gran Consiglio», Corriere del Ticino, 27 novembre 1940.
  42. 43 AFS, E 2001 (D), vol. 234, Lettera di Pilet-Golaz al console Weiss a Colonia, gennaio 1944.
  43. 44 Egli aveva infatti dovuto licenziare parte dei suoi impiegati, tra cui molti connazionali, a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia e dell’arresto dell’attività portuale di Genova.
  44. 45 Brenni (vedi nota 5).
  45. 46 AFS, E 2001 (D), vol. 234, «Jahresrechnung 1941-1945».
  46. 47 Nel marzo 1944, sembra che il Ticino fosse «il Cantone con la percentuale più alta di svizzeri reduci dall’estero». Cf. «Necessità dell’ora. L’assistenza agli Svizzeri reduci dall’estero», Corriere del Ticino, 10 marzo 1944.
  47. 48 «Soccorriamo i nostri fratelli», Corriere del Ticino, 20 giugno 1940.
  48. 49 AFS, E 2001 (D), vol. 234.
  49. 50 Ibid., Lettera della «Zentralstelle» a Ernst Scheim, divenuto nel frattempo capo dell’Ufficio centrale federale per le questioni concernenti gli Svizzeri dell’estero, 11 febbraio 1946.
  50. 51 «E gli studenti svizzeri rimpatriati?», Corriere del Ticino, 20 gennaio 1944.
  51. 51 «E gli studenti svizzeri rimpatriati?», Corriere del Ticino, 20 gennaio 1944.