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Page:Labi 2009.djvu/85

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lati.[23] Il censimento evidenziò la presenza di 129 cittadini svizzeri di discendenza ebraica residenti in Italia, 44 uomini, 38 donne, 47 bambini.[24]

Sin dai primi decreti razziali, la DAE ritenne preferibile «osservare come queste misure saranno applicate nella pratica e cercare di salvaguardare i nostri interessi caso per caso».[25] Gli ebrei svizzeri, da parte loro, si divisero tra coloro che desideravano restare in Italia e coloro che, invece, volevano rimpatriare. Nelle lettere dei vari consolati, le osservazioni riguardanti la situazione sembravano molto tranquillizzanti e ancor di più lo furono in seguito alle nuove direttive del 6 ottobre 1938, in cui il Gran Consiglio Fascista sancì una serie di nuovi criteri per definire l’appartenenza alla razza ebraica[26] e fissò alcune eccezioni legate all’età (maggiori di 65 anni), ai meriti della propria famiglia[27] oppure, di particolare interesse nel caso degli ebrei svizzeri, al matrimonio contratto con cittadini italiani. Facendo presagire un trattamento particolarmente favorevole, il 10 novembre 1938 il ministro della legazione di Svizzera Ruegger e il conte Ciano decisero che il caso degli ebrei svizzeri sarebbe stato analizzato di volta in volta, grazie anche all’esiguità della loro presenza in Italia. Le famiglie più meritevoli, poi, avrebbero goduto dell’esonero dell’espulsione, tanto quanto gli ebrei con più di 65 anni o sposati a una persona di «razza» italiana. Il 25 novembre 1938 fu dunque inviata dalla legazione svizzera una lista con una decina di casi - i più «raccomandabili» - affinché fosse loro concessa la permanenza in Italia, seguita da una richiesta di altri dieci casi «speciali». Alcuni di questi, tuttavia, nell’attesa di una risposta e temendo il peggio, decisero di rimpatriare. Un primo gruppo partì dall’Italia nel gennaio 1939, mentre nel marzo dello stesso anno tornarono in Svizzera tre famiglie.[28] Altri dovettero attendere marzo per ricevere l’autorizzazione di restare in Italia. Naturalmente, la scelta di analizzare caso per caso, nonostante le rassicura- zioni da parte dei consolati, creò alcune situazioni di pericolo, in alcuni casi risolti, in altri no. Fu per esempio il caso di Frieda K., cittadina svizzera di «razza» ebraica e fede cattolica che, sposata con l’italiano Silvio B., avrebbe dovuto essere automaticamente autorizzata al mantenimento della propria residenza in Italia. Tuttavia, nell’ottobre 1939 fu citata in Pretura, condannata a 15 giorni di prigione con la condizionale e a duecento lire di multa, in quanto non si era annunciata al Municipio.[29]

La seconda spinta al rimpatrio ebbe inizio a seguito del decreto del 30 novembre 1943 secondo il quale gli ebrei residenti in Italia, di qualsiasi nazionalità, dovevano essere internati e i loro beni confiscati. Il decreto gettò nel caos i consolati di Svizzera in Italia. Il console generale Franco Brenni, che aveva