Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (2009)/05

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Quale ritorno? Tempi, significati e forme del ritorno nelle Alpi italiane dall'Otto al Novecento
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[ 57 ]Quale ritorno?


Tempi, significati e forme del ritorno nelle Alpi italiane dall'Otto al Novecento


Patrizia Audenino



Zusammenfassung


Rückwanderungen? Historische Entwicklungen und Ausprägungen der Rückwanderungen in die italienischen Alpen im 19. Jahrhundert


Migrationen in alpinen Gesellschaften werden heute weithin als Prototyp einer zirkulären Migration betrachtet. Allerdings veränderte sich die zeitliche Ausgestaltung dieses Migrationstypus historisch betrachtet sehr stark; er kann heute drei oder mehr unterschiedliche Bedeutungen haben. Deshalb soll hier mithilfe der Chronologie eine Systematisierung dieser verschiedenen Migrationsformen vorgenommen werden, indem die Übergänge von einer Form zur andern deutlich werden. Dazu werden die chronologischen Veränderungen der Erwartungen und Absichten der alpinen Migranten des 19. Jahrhunderts untersucht. Eine solche komparative Analyse, die sich zudem auf verschiedene Alpengebiete erstreckt, zeigt schliesslich - zusammen mit Befunden anderer internationaler Forschungen - die Variabilität und Komplexität der Reaktion bei der Rückwanderung, sei es seitens der Migranten selbst, sei es seitens der Gesellschaft, die sie erwartet.


Nel corso degli ultimi 25 anni si è progressivamente affermata un’interpretazione della società alpina per la quale le molte pratiche migratorie che l’hanno caratterizzata nel tempo risultano come un aspetto della pluriattività che ne ha sorretto l’economia: strumenti di conservazione delle famiglie e delle comunità, attraverso l’esercizio di mestieri e traffici che, per essere esercitati, imponevano l’allontanamento periodico. Su questa base ad esse si sono [ 58 ]potute applicare efficacemente immagini come quella elaborata da Merzario nel 1989 nei confronti degli emigranti della montagna comasca per i quali, «sembra che un filo elastico li leghi ai luoghi della loro nascita» o definizioni di migration de maintien, come quella elaborata da Rosental nel 1990.[1] Si tratta di una lettura sulla quale ormai l’accordo è unanime. Eppure il ritorno che la sottende ha assunto nel tempo forme e significati diversi, tanto che la medesima parola può essere riferita a tipologie ben diverse. Quali?

In primo luogo con questa parola si identifica il ritorno periodico che conclude partenze stagionali ma anche assenze pluriennali. La medesima parola è tuttavia adoperata anche per indicare il ritorno conclusivo di una esperienza migratoria che si è dispiegata lungo l’intera vita di lavoro, quella che è stata definita come «émigration viagère», e che si configura differentemente sia per i protagonisti che per la comunità a cui essi appartengono. Infine, questa parola è stata fino ad anni recenti adoperata per quei viaggi di ritorno ai parenti e alle comunità compiuti dagli emigrati e dai loro figli, stabilitisi definitivamente altrove; quelli a cui oggi, sulla base delle acquisizioni di Baldassar, ci riferiamo come le visits home.[2] Insomma, siamo di fronte ad almeno tre differenti significati per una sola parola.

Un primo interrogativo riguarda la possibilità di mettere ordine, distinguendo i ritorni periodici degli emigranti stagionali dai rientri che coronano le migrazioni pluriennali e di vita, a loro volta ancora ben diversi dalle visits Home. In un primo momento ho pensato che il modo più ovvio per tentare questa operazione fosse quello di collocare tali differenti tipi di ritorno lungo un arco cronologico, che mostrasse quanto le loro trasformazioni fossero una componente cruciale di quelle più generali della società alpina.


Il tramonto del ritorno stagionale

Per quanto riguarda il passaggio da un modello migratorio stagionale ad uno pluriennale, molti indizi ci informano come il suo inizio sia collocabile a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, da quando cioè si dispone della prima documentazione di partenze transoceaniche (sebbene qualcuna sia avvenuta già nei due decenni precedenti): negli anni Settanta partirono per l’Australia i primi gruppi di trentini diretti alle miniere e ai giacimenti auriferi, preceduti solo dai ticinesi e dai valtellinesi, mentre dal Biellese e anche dal Comasco i primi contingenti di scalpellini prendevano la via delle cave di granito o [ 59 ]delle miniere dell’ovest degli Stati Uniti.[3] Le grandi distanze, ma anche il funzionamento dei cantieri per la realizzazione di grandiose opere pubbliche, a cominciare dalla realizzazione del canale di Suez, imposero allontanamenti pluriennali, che affiancarono quelli stagionali di quanti continuarono a dirigersi in Svizzera, in Germania e in Francia.

Rispetto a questo mutamento nella durata, gli interrogativi sono parecchi. Innanzitutto come sappiamo che i viaggi transoceanici vennero intrapresi con l’obiettivo del ritorno?

Già all’inizio degli anni ‘ 90 del secolo scorso Dino Cinel e Mark Wyman hanno mostrato come, fra il 1908 e il 1923, vale a dire negli anni centrali della grande emigrazione, la propensione al ritorno degli emigranti dall’Italia settentrionale si collocasse, con il suo 37 percento, nella fascia più alta dei rimpatri fra gli emigranti europei, superata tuttavia dagli italiani meridionali (60 percento), e da gran parte degli europei dell’est, quali russi, slovacchi, magiari, greci, fino all’89 percento dei serbi, montenegrini e rumeni, collocando tale alta propensione al ritorno in un modello di lunga durata, di migrazioni intense ma di breve raggio.[4] Wyman ci informa anche sul sistema adoperato all’inizio del Novecento dalle autorità austro-ungariche nell’indagine sull’esodo degli sloveni, le cui dimensioni apparivano preoccupanti. Esso fu quello di valutare la percentuale degli sposati fra gli emigranti e di osservare l’andamento delle vendite di terreno, per scoprire che due terzi degli emigranti non erano sposati e che quasi la totalità dei proprietari non aveva venduto i propri terreni. Queste circostanze vennero interpretate come la prova che il progetto migratorio era temporaneo, e che gli emigranti intendevano ritornare. I funzionari italiani non fecero tale controllo, ma a conclusioni analoghe, sia pur con metodi differenti, erano pervenuti i principali osservatori dell’esodo alpino fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quali Jacini e Coletti.[5]

Oggi abbiamo acquisito molte consapevolezze circa le implicazioni demografiche e le conseguenze sulla vita comunitaria e familiare delle assenze stagionali e dei ritorni, anch’essi, stagionali degli uomini da molte comunità delle Alpi. Sappiamo invece meno su come si adattarono i migranti a questo nuovo modello migratorio, che prevedeva il ritorno dopo assenze di molti anni e anche di tutta la vita e su quanto esso sia durato.

Un documento cruciale per tentare di costruire delle scansioni cronologiche che colgano l’evoluzione del ritorno nelle alpi italiane è l’inchiesta dell’INEA sullo spopolamento montano dell’inizio degli anni Trenta del Novecento. In essa, infatti, vengono delineate non solo le caratteristiche dei ritorni [ 60 ]nell’emigrazione temporanea e stagionale delle Alpi ma viene anche registrata la loro progressiva scomparsa. Lungo tutta quell’area centrale delle Alpi italiane caratterizzata da forme circolari di emigrazione, legata perlopiù all’esercizio dei mestieri dell’edilizia, i vari relatori confermarono l’interruzione di una tradizione secolare di andirivieni. Per la Valsesia, Mario Spanna informava come si stesse rapidamente perdendo l’abitudine degli uomini di ricondurre le mogli in paese alla nascita del primo figlio, e di tornare poi periodicamente alla famiglia perché «il ritorno delle neo-mamme non si verifica più oggi con la consueta regolarità di una volta. Sovente la donna preferisce restare al fianco del marito, nella sua nuova lontana residenza.»[6] Per la Valtellina, Sertoli denunciava il caso del comune di Civo, i cui abitanti a turno, entro la stessa famiglia, esercitavano il commercio a Roma: «[O]ggi [...] in conseguenza di recenti direttive del Governatorato che non permettono di esercitare il commercio a coloro che non abbiano domicilio nella capitale, preferiscono rimanere definitivamente a Roma.»[7]

Le conclusioni di Giusti, uno dei grandi nomi degli studi geografici nell’Italia del tempo, relative alle Alpi lombarde, indicano con chiarezza i mancati ritorni come effetto degli impedimenti che nel corso degli anni Venti erano stati posti alla partenza, responsabili della rottura di quell’andirivieni stagionale, che aveva per secoli caratterizzato l’economia del versante italiano delle Alpi centrali. Giusti denunciò in egual modo per la montagna lombarda, come già aveva fatto per quella ligure-piemontese e per quella tridentina, i «gravi danni [.] che derivano dalla fermata di questo flusso migratorio», poiché le difficoltà poste alla libera circolazione davano luogo a due effetti altrettanto perniciosi: i «mancati ritorni di chi poté allontanarsi» e «un sovrapopolamento di fronte ai redditi diminuiti».[8]

La fermata dei tradizionali spostamenti stagionali era responsabile dello spopolamento perché, scriveva Giuseppe Medici per il Comasco e il Varesotto, la popolazione della Val Solda «ha una tradizione antirurale per eccellenza: sono scalpellini, muratori, decoratori, ma non montanari».[9] La stessa mentalità «antirurale» caratterizzava la Val d’Intelvi, dove gli abitanti della valle «ritornano alla montagna al cadere dell’autunno e invece di dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia, preferiscono aspettare in ozio la stagione successiva». Per Medici, a favorire l’allontanamento delle famiglie contribuiva anche, in molti casi, il cambiamento degli itinerari, che da transoceanici con ritorno, a causa delle difficoltà ad ottenere passaporti e visti, si trasformavano in europei e definitivi. Egli vedeva tuttavia anche altri aspetti, come le «attitudini psicologiche della donna del montanaro», e una capacità di essere «più rapida nell’intuizione delle [ 61 ]questioni economiche e meno indulgente verso il passato» che contribuivano a spezzare i ritmi dei rientri e delle partenze maschili, innescando l’esodo familiare definitivo. «Quando la donna intuisce che la sua vita passerà in una dolorosa solitudine, lontana dal marito, lontana dai figli che partiranno appena atti al lavoro, allora lo spirito della sposa, della madre, si ribella, e prima che il marito abbandoni il paese nativo, si prepara a seguirlo.»[10] Molti anni dopo una testimonianza di una donna biellese, moglie e madre di emigranti, avrebbe confermato questa opinione. Emma Comazzi, vedova di Giuseppe Comazzi, nato nel 1902 a Roasio, ed emigrato nel 1923 in Costa D’Oro dove lavoravano tanti suoi compaesani, aspettò 16 anni il ritorno del marito, per dichiarare a chi la intervistava all’inizio degli anni Novanta: «L’Africa ci tolse prima i mariti e poi i figli e i nipoti [...] per chi aspetta la vita è sempre molto dura e triste [...] Sono arrivati anche i soldi è vero, ma a che servono ora?»[11] In poche frasi vengono demoliti qui due stereotipi: che l’emigrazione transoceanica fosse più facilmente definitiva che quella diretta verso l’Europa, e che le donne costituissero la parte più restia alla partenza definitiva.

Dalle indagini INEA emerge non solo l’equazione frontiere aperte, eguale a ritorno garantito contrapposto a frontiere chiuse, pari a mancato ritorno con conseguente spopolamento montano, ma anche che l’esodo posteriore alla grande guerra è stato con destinazioni europee più che nel passato e che appunto da queste nuove destinazioni, prevalentemente francesi, gli emigranti hanno smesso di ritornare. Questa informazione ci dice anche, indirettamente, che le destinazioni transoceaniche più lontane, nei confronti delle quali l’esodo era stato a lungo ritenuto come definitivo, sono state invece scelte prevalentemente per soggiorni temporanei. Tuttavia le indicazioni cronologiche che se ne possono trarre risultano solo indicative di una tendenza generale, contrastata a lungo dalla vischiosità dei comportamenti degli emigranti che, in molte località delle Alpi, continuarono ben oltre la metà del Novecento a uniformarsi a uno schema migratorio che faceva del ritorno l’obiettivo ultimo di ogni partenza.


Gente che sfidava il mondo

A tale proposito, infatti, altre fonti ci informano che mete anche molto distanti, per vari decenni, dopo l’inchiesta INEA, hanno continuato a essere oggetto di soggiorni di lavoro progettati come temporanei, e divenuti definitivi solo casualmente e contro la volontà dei protagonisti. Ancora nel 1953, rievocando la [ 62 ]propria esperienza di una vita di lavoro all’estero, un emigrante trentino avrebbe scritto: «I nostri connazionali erano gente che sfidavano il mondo, e non aveva paura del lavoro, favano di tuto di quello che si trovava basta far soldi in poco tempo da poter ritornare a casa sua con le sue famiglie, e coltivare le loro campagne nei suoi paesi nativi.»[12]

L’esperienza dell’emigrazione trentina e valtellinese in Australia risulta particolarmente significativa, perché questa destinazione, lontana e percepita come inospitale, venne adottata per un progetto migratorio temporaneo in misura maggiore di tutte le altre. Le lettere degli emigranti dalla Valtellina in Australia, raccolte da Jaqueline Templeton e delle recenti ricerche sull’emigrazione trentina in Australia, costituiscono quindi una formidabile documentazione della persistenza nel corso del Novecento di un sistema migratorio incentrato sul ritorno, anche se le assenze erano necessariamente pluriennali.[13] Queste indagini ci forniscono una serie di notizie assai utili per la comprensione dei progetti sottesi all’esperienza migratoria e di come essa prevedesse il ritorno come sua naturale conclusione.

Il confronto fra i progetti e le propensioni al ritorno degli irlandesi in Australia studiati da David Fitzpatrick, con quelli dei valtellinesi, ci permette di valutare le differenze di attitudine nei riguardi del ritorno.[14] Anche se, va detto, anche nelle lettere irlandesi analizzate da Fiztpatrick l’idea di ritorno è assai più presente di quanto non lo sia negli stereotipi dominanti sull’esodo irlandese, di solito considerato come bridge-burner. L’aspetto più significativo degli epistolari valtellinesi è costituito non solo dalla riproposizione immutata nel tempo di un modello migratorio circolare, ma anche dalla circostanza che tale modello si applicasse a una rotta tanto lontana come quella australiana, a ulteriore smentita di ogni possibilità di incasellare l’emigrazione transoceanica nella categoria dell’esodo definitivo.

Può essere interessante paragonare l’esperienza di tre emigranti valtellinesi che ho selezionato perché appartenenti a coorti generazionali assai distanti. Il primo, Pietro Bombardieri, nato nel 1842 a Madonna di Tirano da una famiglia di proprietari terrieri non poveri, arrivò la prima volta a Melbourne nel febbraio del 1872, per tornarvi altre due o più probabilmente tre volte, in compagnia del fratello della moglie e lavorando nelle miniere Walhalla, per fare ritorno definitivamente a casa nel 1887 o 1888, dopo avere risparmiato tanto da poter ampliare e razionalizzare i vigneti di sua proprietà. Un secondo caso significativo è quello di Luigi Nazzari, figlio di una famiglia di contadini agiati di Tirano, che partì la prima volta per l’Australia a 23 anni nel 1908, per restarvi fino al [ 63 ]1919, quando tornò (la prima volta) con un gruzzolo di più di mille sterline: tali risparmi gli permisero nel 1924 di comperare la trattoria Corona, dopo che gli invii di denaro precedenti avevano contribuito ad ampliare le proprietà di famiglia. Gli fu necessario tuttavia un secondo soggiorno di sette anni in Australia, per ampliare l’osteria che era il frutto di tanti anni di fatica, e solo nel 1930 poté rientrare definitivamente; riuscì anche a vedere nel 1967 l’inaugurazione dell’hotel «Corona», ristrutturato da suo figlio, prima di morire nel 1968. Dino S. partì invece nel 1951 per andare a fare il boscaiolo nel Western Australia, da dove rientrò nel 1959 soddisfatto di essersi garantito una vita decorosa, attraverso un sacrificio di otto anni, alleviato solo dalle costanti e premurose lettere della moglie, che lo ragguagliavano sui progressi dei figlioletti, e dalla speranza che, una volta rientrato in Italia, «nessuno mi potrà comandare, nessuno mi potrà dire».[15] Più di 80 anni separano il primo dal terzo esempio, ma il progetto migratorio si è ripetuto invariato, riproponendosi come un periodo di duro sacrificio individuale, finalizzato all’acquisizione di risorse per garantire all’intera famiglia un futuro migliore.

Molti anni fa, nel corso delle mie ricerche sull’emigrazione da una vallata biellese, mi sono imbattuta in casi ancora più significativi di tentativi di limitare l’esperienza migratoria al solo periodo lavorativo della vita. Prendiamo il caso di Davide Rosazza, che dopo 40 anni di duro lavoro come scalpellino nel New Hampshire, dopo essere divenuto proprietario di due cave di granito e di una casa, aver allevato i figli ed essere stato raggiunto da una sorella e un genero, pur avendo superato l’isolamento, la povertà, la barriera della lingua, nel 1911 vendette tutto per far finalmente ritorno alla valle di Andorno, nelle Alpi piemontesi, che evidentemente era rimasta perennemente la meta ultima di ogni suo sforzo.[16] Alla metà degli anni Ottanta, quando mi imbattei in questo e in altri casi simili, le tesi prevalenti sul ritorno degli emigranti erano quelle di Cerase.[17] Egli classificava il ritorno nelle quattro categorie del fallimento, della conservazione, dell’investimento e del pensionamento. Ad eccezione della terza, tali categorie configuravano il rientro sostanzialmente come variante del fallimento dell’esperienza migratoria, o meglio come uno stadio «di mancata o parziale integrazione», ma a me non pareva che come tale fosse stato vissuto dai protagonisti delle mie ricerche. Le testimonianze degli emigranti valtellinesi di cui disponiamo ora confermano invece che anche l’acquisto di proprietà agricole poté essere finalizzato al ritorno: nel 1929, Domenico Romedietti di Baruffini assunse la cittadinanza australiana per acquistare una tenuta da 1500 sterline, ma dalle sue lettere risulta chiara [ 64 ]la sua volontà di servirsene per rendere più remunerativa una permanenza che continuava a considerare temporanea: al fratello scriveva infatti di raggiungerlo «per 5 o 6 anni così comperiamo una farma assieme e facciamo qualche sacrificio di qualche anno e ce ne torniamo in Italia».[18] Un altro emigrante, nel 1938, calcolava in quattro o cinque anni il tempo necessario per rendere produttivo l’investimento che aveva fatto aderendo ad un piano di sviluppo agricolo del Queensland. Anche i trentini che scelsero di dirigersi in Australia riadattarono per questi viaggi il modello tradizionale della stagionalità, solo dilatandolo cronologicamente, per cui la differenza stava nel fatto che «la stagione durava un numero più o meno lungo di anni».[19] Fra le altre, la storia di Alessio Brida appare emblematica: «[V]enni in Australia per guadagnare un po’ di denaro allo scopo di aprire una bottega da ebanista [...] - mi dissi -tse vado in Australia e ci resto per tre quattro anni risparmiando metà della paga, al mio ritorno potrò comprare dei macchinari.»[20]

Si tratta di atteggiamenti non dissimili da quelli mostrati dagli imprenditori edili di Roasio - un paese biellese -, che negli ultimi decenni dell’Ottocento hanno costruito le loro rotte migratorie preferenziali verso i paesi del golfo di Guinea, e per questo comunemente conosciuti come «gli africani». In una intervista dell’inizio degli anni Novanta, alla domanda sul perché fosse tornato definitivamente dall’Africa, dove era emigrato nel 1957, Bruno Ferretti dichiarò: «Quando uno va in paese straniero per lavorare, va per la convenienza. Non ci lasciavano più portare a casa i nostri risparmi. Noi eravamo là non solo per costruire ma anche per trarne profitto.»[21] Le sue parole trovano eco ancora nel 2004 in quelle di Beniamino Scandella, di Onore, in Val Seriana, provincia di Bergamo: «non ho mai pensato di fermarmi per sempre all’estero, no, no mai. Anche perché i miei cantieri erano sempre fuori, isolati. Sarebbe stato diverso se avessi lavorato nelle città [...] ma così noi vivevamo del lavoro e basta. Nei paesi arabi vivevamo tra gli uomini, nessuno aveva giù la famiglia.»[22]

Per quanto riguarda questa prima parte è già possibile tratteggiare alcune considerazioni complessive. L’andamento circolare dell’emigrazione si è mantenuto anche nell’esodo transoceanico, riadattando la scadenza stagionale a cadenze pluriennali e non sembra esserci stata una minore propensione al ritorno dalle mete più lontane, ma semmai il contrario. Molte fonti, come abbiamo osservato, ci indicano invece che tale modello è stato applicato, anche molto precocemente, su mete migratorie assai distanti, che proprio perché tali, in quanto percepite come luoghi inospitali, non vennero mai prese in [ 65 ]considerazione come luoghi dove stabilirsi definitivamente. L’esempio degli emigranti valtellinesi e trentini in Australia, ma anche quello dei biellesi e dei bergamaschi in Africa e in Medio oriente mostra come queste mete siano state percepite come accettabili solo in considerazione della temporeanità dell’esperienza migratoria. Come ha ricordato Templeton, citando il diario di un emigrante trentino dell’inizio del Novecento, l’Australia era considerata un buon posto per lavorare e risparmiare, ma dal quale andarsene al più presto. In secondo luogo si conferma il ruolo di investimento attribuito all’emigrazione fino agli ultimi decenni del Novecento. Le conseguenze di tale investimento non solo risultano ben visibili nel tessuto urbano dei paesi di provenienza, dove abitazioni, chiese, edifici e opere pubbliche, ma anche attività imprenditoriali, risultano come prodotto diretto delle risorse procacciate dagli emigranti. Dalla manifattura dell’occhialeria del Cadore all’industria alberghiera trentina, fino alle piccole attività alberghiere e di ristorazione della Valtellina, i risparmi riportati a casa hanno continuato a fornire i capitali iniziali delle attività imprenditoriali di tante comunità alpine, riaffermando un modello osservato nelle Alpi cuneesi già all’inizio del Novecento.[23]

In terzo luogo possiamo osservare come i rientri stagionali abbiano continuato ad affiancare a lungo quelli che coronavano assenze pluriennali, tanto che, allo stato attuale della documentazione, è possibile proporre delle date di inizio delle assenze pluriennali, ma non la loro fine, dato che esse sembrano essere sperimentate anche dagli emigranti frontalieri contemporanei. Di conseguenza si conferma la difficoltà di cogliere le cesure temporali fra emigrazione stagionale e emigrazione pluriennale agli effetti del ritorno, in quanto la seconda si è prodotta come una dilatazione temporale della prima, che, con costi umani altissimi, ha tentato di perpetuare un modello tradizionale di emigrazione circolare. A questo riguardo, il primo obiettivo che mi ero proposta - ovvero di scandire nel tempo tali tipologie migratorie per tentare di definirle meglio - è risultato non solo elusivo, ma anche meno decisivo di quanto ritenessi. Il luogo della «vita vera» Una seconda domanda, che ci può aiutare a definire meglio le varie tipologie di ritorno, riguarda l’esperienza migratoria nella percezione e nel racconto degli emigranti ritornati. Se nella progettualità, e nei comportamenti messi in atto, le assenze pluriennali si sono uniformate al medesimo modello di quelle stagio[ 66 ]nali, con l’obiettivo del ritorno, quali sono state le percezioni individuali delle differenti cronologie delle assenze e con quali esiti sul ritorno?

Nel 1990, in un suo studio dedicato agli immigrati turchi in Germania, Ruth Mandel verificò come questi ultimi considerassero come «vita vera», solo quella passata a casa per un mese, e non quella dei restanti 11 mesi passati in Germania a lavorare.[24] Le lettere e le testimonianze degli emigranti biellesi descrivono anch’esse con efficacia questa sorta di sospensione o di tregua con cui venne affrontata l’esperienza migratoria, che, in quanto temporanea, venne considerata una pausa necessaria anche se dolorosa nella propria esistenza sociale ed affettiva. Paul André Rosental ha invece distinto fra un space vécu e un espace investi, per definire i luoghi dell’emigrazione, dove si svolge l’esistenza materiale e quotidiana dell’emigrante e quelli dove si materializzano gli obiettivi perseguiti attraverso l’emigrazione.[25] Lo stato d’animo mostrato spesso nelle lettere dei migranti valtellinesi in Australia è stato quello che Jaqueline Templeton ha definito come di «esilio volontario», che gli emigranti si imponevano per conquistare una libertà e una indipendenza future.[26]

Vivere nel futuro permetteva di sopportare i sacrifici presenti. Nelle lettere di Dino S., il più giovane degli emigranti valtellinesi di cui ho tratteggiato la vicenda, emerge come egli avesse sempre davanti a sé il momento del ricongiungimento con la moglie e i figli, quello in cui il suo soggiorno australiano sarebbe stato dietro le spalle e sarebbe entrato a far parte dei ricordi. Alcuni effettivamente tornarono pienamente soddisfatti di quanto avevano conseguito: le aspettative della partenza furono raggiunte e i desideri esauditi.

Ma il ritorno garantì davvero la piena reintegrazione psicologica e sociale degli emigranti? Essi erano immediatamente riconoscibili: Wyman ci informa che un medico svedese dell’Ottocento lamentava che le donne ritornate dall’America erano vestite come dei pavoni, e anche Amy Bernardy, agli inizi del Novecento notò come le ragazze biellesi reduci dagli Stati Uniti fossero notate dai loro compaesani per via dei cappelli grandi come parapioggia.[27] Alcune fotografie scattate in valle di Andorno all’ inizio del Novecento ci mostrano le donne con i tradizionali vestiti di fatica delle valligiane e con le ceste piene di ramaglie sulle spalle, ma gli uomini vestiti alla moda cittadina, con giacca e cravatta. A Tirano, in Valtellina, l’ultimo giorno di carnevale del 1915, alcuni uomini rientrati dall’Australia si travestirono da lavoratori del bush, con la coperta arrotolata sulle spalle e la gavetta per il té: dai compaesani venivano chiamati «gli austraglieri», così come è già stato ricordato l’appellativo di «africani» usato dai biellesi.[28] [ 67 ]I figli tuttavia mal sopportavano la presenza in casa di questi padri intrusi che intendevano dare ordini, e spesso il rientro di questi ultimi segnava il momento della loro partenza. Il più piccolo dei figli di Domenico Molinari, di Madonna di Tirano, aveva due anni nel 1888, quando il padre partì e 14 quando tornò pretendendo obbedienza, tanto che appena potè raggiunse il fratello in Australia, allontanandosi da quello che gli pareva come un estraneo. In modo analogo, molti anni dopo, nel 1928 un altro emigrante valtellinese, Antonio, dovette partire al rientro del padre, ma esprimendo con chiarezza nelle sue lettere la consapevolezza che i vantaggi materiali dell’emigrazione temporanea di quest’ultimo avevano comportato il prezzo della separazione della famiglia. Il biellese Arturo Gibellino di Roasio racconta nel suo libro La corte sisballana, del 1995, che «il papà, io non l’avevo conosciuto, perciò il papà era per me una lettera. Sapevo che le donne di casa mia, se la lettera non arrivava, piangevano di nascosto [.] Quando la mamma si metteva a scrivere la risposta, ancora lacrime. Insomma il mio papà era una lettera bianca piena di timbri e di lacrime. Ma un giorno, dopo tre anni di lacrime, il papà tornò. Lo potevo finalmente conoscere [...]. Che delusione quando lo vidi! Quell’uomo che mi correva incontro, in compagnia della mamma, era un omaccio vestito di scuro, con un cappello nero in tesa, dei lunghi baffi neri e gli occhi grigi taglienti come una lama. Ebbi paura e mi misi a strillare.»[29] Quindi gli emigranti al loro ritorno da assenze pluriennali sono stati spesso percepiti come estranei dalla comunità, e anche dai loro figli.

Un altro aspetto che spesso emerge dai ricordi degli emigranti è il doloroso perdurare, anche nel ritorno, di quel senso di estraneità che aveva caratterizzato la vita all’estero. Il momento tanto atteso ha prodotto gli esiti più incerti sul senso di appartenenza e gli episodi più evidenti di spaesamento.

«Dopo otto giorni di Inghilterra, arrivai in Italia. Arrivai al paese e mi sentivo uno straniero ed anche le parole mi venivan fuori con fatica - ha scritto il trentino Aldo Gios, rientrato dall’Australia -. Ricordai le parole del mio amico vecchietto: <Sarai uno straniero a casa tua.> Aveva ragione, era proprio così e sentivo la voglia di andare via. Tutto mi sembrava così stretto, le montagne, che tanto amavo, sembrava che mi cadessero addosso.»[30] Anche dall’esperienza di Massimiliano Aloisi, egli pure trentino, si percepisce qualcosa di analogo: rientrato a Rovereto nell’aprile del 1950, dopo 23 anni di Australia e con il programma di rimanervi un anno o due, dopo quattro mesi, dato che aveva visto tutto e tutti, decise di ritornare in Australia. Forse, questo secondo viaggio venne percepito come il vero ritorno a casa.[31] Un emigrante bergamasco, intervistato nel 2003, dice: «Tutti mi chiamavamo “nonno” e ho capito che dopo trentotto [ 68 ]anni era ora di tornare a casa. È stato difficile abituarsi alla vita di paese. La prima settimana mi sembrava di stare in paradiso perché non lavorare [.] poi però abituato a tutti i giorni di lavoro non sapevo come arrivare a sera.» In altri casi, il ritorno non ha coronato i sogni di una vita: «E ci sono emigranti che sono tornati in Italia e poi sono tornati in Svizzera e questo è stato difficile perché prima hanno spostato tutto, la pensione e tutto il resto, per vivere in Italia, poi hanno tribolato per tornare in Svizzera. Non si sentivano appagati in Italia.»

L’isolamento e il senso di precarietà che per tanto tempo hanno caratterizzato la vita all’estero, sono rimasti anche nel rientro: «Sandro adesso non è che abbia più di tanto nostalgia dell’Africa no: soprattutto qui si sente un po’ isolato, un po’ solo», ha detto la moglie tedesca di un emigrante di Onore, nel Bergamasco, rientrato dopo molti anni, mentre un altro afferma: «[N]on so ancora come mi trovo qui a casa, adesso che siamo tornati. Devo ancora capire. Non è facile dopo tanti anni. Ho sempre l’impressione di dover ripartire, mi sembra ancora come quando eravamo qui in vacanza. Siamo cambiati, sono cambiato. Dopo tanti anni all’estero cambi carattere, modo di essere.»[32]

Le ricerche sulle modalità migratorie e sulla conseguente elaborazione identitaria dei biellesi hanno in più di una occasione indotto a riconoscere precoci caratteri transnazionali nei loro comportamenti e nella loro percezione di sé.[33] La sicurezza con cui i rappresentanti di questo gruppo hanno mostrato di sapersi muovere per il mondo, all’interno di uno spazio sociale transnazionale delimitato solo dalle opportunità offerte dal mercato del lavoro, non appare come un’esperienza generalizzabile. Il risultato dell’assenza protratta per molti anni e spesso per tutta la vita lavorativa evoca in altri casi piuttosto immagini di disagio diffuso. Alla moltiplicazione delle patrie e delle case, al bilocalismo e al plurilocalismo, cui oggi ci si riferisce prevalentemente con il termine di transnazionalismo, sembra in molti casi opporsi la perdita di punti di riferimento. Al sentirsi a casa in più di un luogo si contrappone la percezione di essere sempre fuori luogo, come l’ebreo evocato da Stefano Levi della Torre, e quindi di aver perduto anche la terra di origine.[34] Ad una identità deterritorializzata, costruita su meccanismi analoghi a quelli identificati da Glick Schiller, Basch e Szanton Blanc, è sembrato contrapporsi in molti casi un appannamento dell’identità.[35]

Tuttavia ci si può chiedere se, come negli emigranti inglesi in Australia indagati da Hammerton e Thompson, l’aver speso parte della vita in luoghi tanto distanti e diversi abbia prodotto un allargamento degli orizzonti personali e un sentimento di avere sperimentato in modo più ricco le possibilità offerte [ 69 ]dalla vita. Come ha raccontato un ex emigrante di Manchester, «quando si incontrano i vecchi amici, si ha la consapevolezza di avere visto posti diversi, di essere stato dall’altra parte della terra, di aver visto gente differente mentre loro no, loro sono stati sempre nella stessa routine esattamente come quando tu sei partito».[36] Piuttosto raramente tuttavia le testimonianze epistolari e memorialistiche confermano questo tipo di elaborazione della propria esperienza migratoria. L’aspetto dell’ arricchimento psicologico personale sembra del tutto in secondo ordine, rispetto a quelli della fatica e del sacrificio individuale. Affermazioni come quella di Beniamino Scandella, di Onore, nel Bergamasco, che nel 2004 dopo molti anni spesi nei cantieri del Medio Oriente dichiarava «Forse era quasi una voglia d’avventura» e che in altro passaggio ricordava «cose belle ne ho viste girando per il mondo: per esempio il deserto» sono abbastanza eccezionali. Più fedele ad una interpretazione maggiormente diffusa è la testimonianza del suo compaesano Alfonso Schiavi: «Per me lavorare in Svizzera, in Lussemburgo, in Belgio in Arabia o in Iraq era la stessa cosa: tu fai il tuo lavoro e basta e il resto non ti interessa.»[37]

D’altro lato, in molti degli scarni racconti degli «africani» di Roasio emerge come l’aver riportato a casa la pelle sia spesso considerato un premio remunerativo: «C’era la mosca tzè tzè, che se ti mordeva, ti mandava all’ altro mondo. Altri insetti ti facevano dormire per sempre. Serpenti velenosi circolavano, senza chiederti il permesso. Le meno pericolose erano le belve - racconta Gino Falzone, andato in Africa nel 1937. Chi moriva veniva subito sostituito. Riuscire era una questione di orgoglio e di prestigio, significava conquistarsi coi soldi la fiducia, e ottenere altri appalti, vincere una scommessa con noi stessi e con la vita.»[38]

Infine, in modo più positivo, alcune esperienze di ritorno hanno comportato la riscoperta e la valorizzazione della propria origine. Per i giovani australiani figli di trentini il viaggio nella terra dei padri ha comportato l’acquisizione di un nuovo orgoglio delle proprie origini, anche dovuto alla scoperta che quei luoghi non erano «come gli australiani si immaginano l’Italia», vale a dire né arretrati, né abbandonati, ma addirittura «alpine-style»: vale a dire con quel valore aggiunto di eleganza europea che permetteva di ascriversi, come in un episodio di agnizione, un’ascendenza più rispettabile di quanto si credesse, secondo i noti procedimenti di invenzione e di negoziazione dell’etnicità.[39]

È quindi sul piano delle emozioni, dei sentimenti di identità e di appartenenza che è possibile misurare la differenza di risultato fra i rientri dopo molti anni o addirittura dopo un’intera vita spesa all’estero e quelli stagionali. La dilatazione temporale delle assenze, anche se progettata in vista del ritorno, [ 70 ]ha di fatto vanificato il progetto iniziale, perché sono cambiati i luoghi, ma l’esperienza migratoria ha cambiato anche i protagonisti. Quella che in molti casi è divenuta una vita di qua e di là, caratterizzata dal bilocalismo e da appartenenze transnazionali, ha sovente comportato il prezzo di essere né di qua né di là.

Le contraddizioni messe in luce dal ritorno risultano visibili con chiarezza nel racconto e nell’esperienza degli emigranti trentini e valtellinesi, bergamaschi e biellesi. Il rientro dopo lunghe assenze si è configurato per tutti costoro come il coronamento del progetto migratorio, gravato tuttavia da un groviglio di sentimenti e percezioni contrastanti. In primo luogo lo sguardo di chi è rimasto, che vede in chi ritorna un estraneo, e la correlata latente rivalità che si stabilisce fra chi è partito e chi è restato, alimentata dall’ interrogativo su chi se la passa meglio, con dinamiche ben messe in luce da Baldassar.[40] In secondo luogo l’inevitabile contraddizione fra il qui e il là, e per taluni la sconcertante scoperta che il posto dove per tutta la vita si è desiderato tornare non è all’altezza delle aspettative, e che forse la casa vera è ormai diventata l’altra. Tale circostanza è collegabile alla complessità e alla ricchezza semantica della parola «casa». David Fitzpatrick, analizzando le lettere degli emigranti irlandesi in Australia, ha identificato ben nove significati differenti, cha spaziano dall’abitazione, alla famiglia, al villaggio, fino alla patria, normalmente riferite al luogo di partenza:[41] in alcune esperienze di migranti questa pluralità di significati include anche la nuova casa acquisita nei luoghi di emigrazione, complicando ulteriormente il quadro semantico. In terzo luogo il momento del ritorno ha messo in gioco il problema dell’identità e dei mutamenti della personalità prodotti dal processo migratorio. Dopo anni, e talvolta una vita, passati all’estero da stranieri ma con una identità ancorata a un preciso luogo, è arrivata la scoperta di essere stranieri anche nell’unico posto al mondo cui si credeva di appartenere di diritto. Accanto a questa, in quarto luogo, c’è anche la consapevolezza dell’arricchimento psicologico prodotto dall’aver passato lunghi periodi all’estero, che a sua volta rappresenta tuttavia un ulteriore elemento di distanza fra chi non si è mai mosso e chi ha visto il mondo. Infine, soprattutto nel caso delle visits home, di quanti hanno deciso di fermarsi definitivamente all’estero o dei figli di questi ultimi, compare la riscoperta della bellezza dei luoghi nativi, assieme alla possibilità di osservarli con l’occhio ammirato del turista, e l’elaborazione dell’orgoglio di appartenervi e di poterli in qualche modo annettere all’immagine di sé offerta agli altri. Come ultima considerazione devo aggiungere anche che, nel tentativo di scandire per meglio definire le varie tipologie di ritorno sperimentate dagli emigranti [ 71 ]delle comunità alpine, avevo creduto nella possibilità di poter cogliere anche una specificità derivante dalla lunga consuetudine migratoria. Questa specificità si è rivelata nella disponibilità dei migranti alpini a dilatare le consuete assenze stagionali, puntualmente coronate dal ritorno a casa, su scadenze pluriennali otcomprensive dell’intera vita lavorativa progettate col medesimo esito. Essa ha prodotto coseguenze di sofferenza, di alienazione individuale e, sovente, di impossibilità di progettare una conclusione della propria esperienza migratoria differente dal ritorno, che hanno costituito l’esito più sconcertante, anche se provvisorio, di questa ricerca.


Note

1 R. Merzario, Il capitalismo nelle montagne. Strategie famigliari nella prima fase di industrializzazione nel comasco, Bologna 1989, p. 45; P-A. Rosental, «Maintien/rupture: un nuoveau couple pour l’analyse des migrations», Annales ESC, 6, 1990, pp. 1403-1431.

2 L. Baldassar, Visits home. Migration experiences between Italy and Australia, Melbourne 2001.

3 F. Bozzato, L'emigrazione italiana in Australia: il caso trentino, Tesi di laurea, Università degli studi di Milano, Facoltà di Scienze politiche, a. a., 2004-2005, p. 30; R. Grosselli, L'emigrazione dal Trentino, San Michele all’Adige 1998; B. Ciapponi Landi (a cura di), Valli alpine ed emigrazione. Studi, proposte, testimonianze, Tirano 1997, pp. 51-55; C. Brusa, R. Ghiringhelli (a cura di), Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, Varese 1995; V. Castronovo et al., L'emigrazione biellese fra Ottocento e Novecento, Milano 1986; P Audenino et al., L'emigrazione biellese nel Novecento, Milano 1988; G. Cheda, L'emigrazione ticinese in California, vol. II: Epistolario, Locarno 1981.

4 D. Cinel, The National Integration of Italian Return Migration 1870-1929, Cambridge 1991; M. Wyman, Round-Trip to America: The Immigrants Return to Europe 1880-1930, Ithaca 1993, p. 11.

5 S. Jacini, Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio, Sondrio 1963 (1o ed. Milano 1858); Atti della giunta per l'Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma 1883, in particolare voll. VI, VII, VIII; F. Coletti, Dell’emigrazione italiana, in: Cinquantanni di storia italiana, vol. III, Milano 1911.

6 M. Spanna, La Valsesia, in: Istituto Nazionale di Economia Agraria (d’ora in poi INEA), Lo spopolamento montano in Italia, I: Le Alpi Liguri e piemontesi, Roma 1932.

7 A. Sertoli, Chiavennese e Valtellina, in: INEA, Lo spopolamento montano in Italia, II: Le Alpi lombarde, pp. 238-240.

8 U. Giusti, Note riassuntive, in: INEA (vedi nota 7), pp. I-XLIV.

9 G. Medici, Varesotto - Comasco - Valle Brembana, II: Ordinamento della produzione e spopolamento, in: INEA (vedi nota 7), p. 70.

10 Medici (vedi nota 9), p. 73, 90.

11 A. Gibellino, La corte sisballana. Storia di un paese dimenticato, Vercelli 1995, pp. 39-310.

12 G. Scaia, «<Il pane dalle sette croste>. <Piccola storia> di un emigrante di Prezzo (Giudicarie-Trentino)», Judicaria, 17, maggio-agosto 1991 (ed. originale, Seattle 1953), p. 30.

13 J. Templeton, Dalle montagne al Bush. L'emigrazione valtellinese in Australia (1860-1960) nelle lettere degli emigranti, 2a ed. con i testi delle lettere, a cura di J. Lack, Tirano 2005; Bozzato (vedi nota 3).

14 D. Fitzpatrick, Oceans of Consolation: Personal Accounts of Irish Migration to Australia, Ithaca 1994. [ 72 ] 15 Templeton (vedi nota 13), rispettivamente pp. 193-200, pp. 372-377, pp. 312-318.

16 P. Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano 1990, pp. 144-145.

17 F. P Cerase, «L’onda di ritorno: i rimpatri», in: P Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell'emigrazione italiana, I: Partenze, Roma 2001, pp. 113-125; Id., «Expectations and Reality: A Case Study of Return Migration from the United States to Southern Italy», International Migration Review, VIII, 26, 1974, pp. 245-262; Id., L'emigrazione di ritorno: innovazione o reazione?, Roma 1971; per una recente rassegna degli studi italiani sul ritorno cf. P Corti, «Dal ritorno alle visits home: le tendenze di studio nell’ultimo trentennio», Studi emigrazione/Migration Studies, XLIII, 164, 2006, pp. 927-946.

18 Templeton (vedi nota 13), p. 90.

19 Bozzato (vedi nota 3), p. 135.

20 M. Loh, With Courage in their Cases. The Experience of Thirty-Five Italian Immigrant Workers and Their Families in Australia, Melbourne 1980, p. 15.

21 Gibellino (vedi nota 11), p. 325.

22 P. Antonini, G. Schiavi (a cura di), Sotto altri cieli. Emigranti di ieri e immigrati di oggi a Onore (Calendario 13), Bergamo 2004, pp. 135-136.

23 C. Grandi, «Immagini di un’evoluzione. La donna di montagna e l’avvio dell’imprenditoria turistica veneto-trentina (fine ottocento, primi novecento)», in: D. J. Grange (sous da dir. de), Espace alpin et la modernità. Bilans et perspectives au tournant du siècle, Grenoble 2002, pp. 375-394; R. Grosselli, «Quando la mobilità del lavoro si trasforma in impresa: il caso trentino XVIII-XX secolo», in: G. L. Fontana, A. Leonardi, L. Trezzi (a cura di), Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi in età moderna e contemporanea, Milano 1998, pp. 147-174; G. Scaramellini, «Der pundtner London: commercio, finanza e manifattura nel borgo e nel contado di Chiavenna nei secoli XVI-XIX», ibid., pp. 239-268; G. L. Fontana, «Mobilità imprenditoriale e del lavoro alle origini dell’occhialeria trentina», ibid., pp. 323-340; V. Baldioli-Chiorando, «L’emigrazione in alcuni paesi della provincia di Cuneo (montana e collina)», La riforma sociale, XIII, 1903, p. 844.

24 R. Mandel, «Shifting Centres and Emergent Identities: Turkey and Germany in the Lives of Turkish Gastarbeiter», in: D. F. Enckelman, J. Piscatori (a cura di), Muslim Travellers: Pilgrimage, Migration and the Religious Imagination, London 1990, pp. 153-171.

25 Rosental (vedi nota 1), pp. 1407-1409.

26 Templeton (vedi nota 13), p. 150.

27 A. Bernardy, «L’emigrazione delle donne e dei fanciulli dal Piemonte», Ministero degli Affari Esteri, Bollettino dell'emigrazione, 1912, 10, Roma 1913, p. 13, su Amy Bernardy cf. M. Tirabassi (a cura di), Ripensare la patria grande. Gli scritti di Amy Allemand Bernardy sulle migrazioni italiane (1900-1930), (Quaderni sulle migrazioni, 14), Isernia 2005.

28 Templeton (vedi nota 13), p. 85.

29 Gibellino (vedi nota 11), p. 308.

30 A. Gios, Non è tutto oro quel che luccica. Ricordi di emigrazione, a cura di D. Stoffella, Vallarsa 1992, p. 86.

31 M. Aloisi, Odyssey to the World. The Story of my Immigration, Sydney 1992.

32 Antonini, Schiavi (vedi nota 22), pp. 131, 140.

33 D. Albera, P. Audenino, P. Corti, «L’emigrazione da un distretto prealpino: diaspora o plurilocalismo?», in: M. Tirabassi (a cura di), Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, Torino 2005, pp. 185-209.

34 S. Levi della Torre, Essere fuori luogo. Il dilemma ebrei tra diaspora e ritorno, Roma 1995.

35 N. Glick Schiller, L. Basch, C. Szanton Blanc, Nations Unbound. Transnational Projects, Postcolonial Predicaments, and Deterritorialized Nation-states, Basel 1994; L. Basch, N. Glick Schiller, C. Szanton Blanc (a cura di), Towards a Transnational Perspective on Migration. Race, Class, Ethnicity and Nationalism Reconsidered, New York 1992. [ 73 ] 36 A. James Hammerton, A. Thompson, Ten pound Poms. Australia's Invisibile Migrants, Manchester 2005, p. 312.

37 Antonini, Schiavi (vedi nota 22), pp. 26, 117, 49.

38 Gibellino (vedi nota 11), p. 312.

39 Bozzato (vedi nota 3), pp. 243, 263; per i processi di riscoperta dell’etnicità, cf. W. Sollors, «Contare le generazioni e <sentirsi italiani>» in: Itinera (vedi nota 33), pp. 231-250; K. N. Conzen et al., «The invention of ethnicity, una lettura americana», Altreitalie, 3, 1990, pp. 4-37.

40 Baldassar (vedi nota 2).

41 Fitzpatrick (vedi nota 14).

  1. 1 R. Merzario, Il capitalismo nelle montagne. Strategie famigliari nella prima fase di industrializzazione nel comasco, Bologna 1989, p. 45; P-A. Rosental, «Maintien/rupture: un nuoveau couple pour l’analyse des migrations», Annales ESC, 6, 1990, pp. 1403-1431.
  2. 2 L. Baldassar, Visits home. Migration experiences between Italy and Australia, Melbourne 2001.
  3. 3 F. Bozzato, L'emigrazione italiana in Australia: il caso trentino, Tesi di laurea, Università degli studi di Milano, Facoltà di Scienze politiche, a. a., 2004-2005, p. 30; R. Grosselli, L'emigrazione dal Trentino, San Michele all’Adige 1998; B. Ciapponi Landi (a cura di), Valli alpine ed emigrazione. Studi, proposte, testimonianze, Tirano 1997, pp. 51-55; C. Brusa, R. Ghiringhelli (a cura di), Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, Varese 1995; V. Castronovo et al., L'emigrazione biellese fra Ottocento e Novecento, Milano 1986; P Audenino et al., L'emigrazione biellese nel Novecento, Milano 1988; G. Cheda, L'emigrazione ticinese in California, vol. II: Epistolario, Locarno 1981.
  4. 4 D. Cinel, The National Integration of Italian Return Migration 1870-1929, Cambridge 1991; M. Wyman, Round-Trip to America: The Immigrants Return to Europe 1880-1930, Ithaca 1993, p. 11.
  5. 5 S. Jacini, Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio, Sondrio 1963 (1o ed. Milano 1858); Atti della giunta per l'Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma 1883, in particolare voll. VI, VII, VIII; F. Coletti, Dell’emigrazione italiana, in: Cinquantanni di storia italiana, vol. III, Milano 1911.
  6. 6 M. Spanna, La Valsesia, in: Istituto Nazionale di Economia Agraria (d’ora in poi INEA), Lo spopolamento montano in Italia, I: Le Alpi Liguri e piemontesi, Roma 1932.
  7. 7 A. Sertoli, Chiavennese e Valtellina, in: INEA, Lo spopolamento montano in Italia, II: Le Alpi lombarde, pp. 238-240.
  8. 8 U. Giusti, Note riassuntive, in: INEA (vedi nota 7), pp. I-XLIV.
  9. 9 G. Medici, Varesotto - Comasco - Valle Brembana, II: Ordinamento della produzione e spopolamento, in: INEA (vedi nota 7), p. 70.
  10. 10 Medici (vedi nota 9), p. 73, 90.
  11. 11 A. Gibellino, La corte sisballana. Storia di un paese dimenticato, Vercelli 1995, pp. 39-310.
  12. 12 G. Scaia, «<Il pane dalle sette croste>. <Piccola storia> di un emigrante di Prezzo (Giudicarie-Trentino)», Judicaria, 17, maggio-agosto 1991 (ed. originale, Seattle 1953), p. 30.
  13. 13 J. Templeton, Dalle montagne al Bush. L'emigrazione valtellinese in Australia (1860-1960) nelle lettere degli emigranti, 2a ed. con i testi delle lettere, a cura di J. Lack, Tirano 2005; Bozzato (vedi nota 3).
  14. 14 D. Fitzpatrick, Oceans of Consolation: Personal Accounts of Irish Migration to Australia, Ithaca 1994.
  15. 15 Templeton (vedi nota 13), rispettivamente pp. 193-200, pp. 372-377, pp. 312-318.
  16. 16 P. Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano 1990, pp. 144-145.
  17. 17 F. P Cerase, «L’onda di ritorno: i rimpatri», in: P Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell'emigrazione italiana, I: Partenze, Roma 2001, pp. 113-125; Id., «Expectations and Reality: A Case Study of Return Migration from the United States to Southern Italy», International Migration Review, VIII, 26, 1974, pp. 245-262; Id., L'emigrazione di ritorno: innovazione o reazione?, Roma 1971; per una recente rassegna degli studi italiani sul ritorno cf. P Corti, «Dal ritorno alle visits home: le tendenze di studio nell’ultimo trentennio», Studi emigrazione/Migration Studies, XLIII, 164, 2006, pp. 927-946.
  18. 18 Templeton (vedi nota 13), p. 90.
  19. 19 Bozzato (vedi nota 3), p. 135.
  20. 20 M. Loh, With Courage in their Cases. The Experience of Thirty-Five Italian Immigrant Workers and Their Families in Australia, Melbourne 1980, p. 15.
  21. 21 Gibellino (vedi nota 11), p. 325.
  22. 22 P. Antonini, G. Schiavi (a cura di), Sotto altri cieli. Emigranti di ieri e immigrati di oggi a Onore (Calendario 13), Bergamo 2004, pp. 135-136.
  23. 23 C. Grandi, «Immagini di un’evoluzione. La donna di montagna e l’avvio dell’imprenditoria turistica veneto-trentina (fine ottocento, primi novecento)», in: D. J. Grange (sous da dir. de), Espace alpin et la modernità. Bilans et perspectives au tournant du siècle, Grenoble 2002, pp. 375-394; R. Grosselli, «Quando la mobilità del lavoro si trasforma in impresa: il caso trentino XVIII-XX secolo», in: G. L. Fontana, A. Leonardi, L. Trezzi (a cura di), Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi in età moderna e contemporanea, Milano 1998, pp. 147-174; G. Scaramellini, «Der pundtner London: commercio, finanza e manifattura nel borgo e nel contado di Chiavenna nei secoli XVI-XIX», ibid., pp. 239-268; G. L. Fontana, «Mobilità imprenditoriale e del lavoro alle origini dell’occhialeria trentina», ibid., pp. 323-340; V. Baldioli-Chiorando, «L’emigrazione in alcuni paesi della provincia di Cuneo (montana e collina)», La riforma sociale, XIII, 1903, p. 844.
  24. 24 R. Mandel, «Shifting Centres and Emergent Identities: Turkey and Germany in the Lives of Turkish Gastarbeiter», in: D. F. Enckelman, J. Piscatori (a cura di), Muslim Travellers: Pilgrimage, Migration and the Religious Imagination, London 1990, pp. 153-171.
  25. 25 Rosental (vedi nota 1), pp. 1407-1409.
  26. 26 Templeton (vedi nota 13), p. 150.
  27. 27 A. Bernardy, «L’emigrazione delle donne e dei fanciulli dal Piemonte», Ministero degli Affari Esteri, Bollettino dell'emigrazione, 1912, 10, Roma 1913, p. 13, su Amy Bernardy cf. M. Tirabassi (a cura di), Ripensare la patria grande. Gli scritti di Amy Allemand Bernardy sulle migrazioni italiane (1900-1930), (Quaderni sulle migrazioni, 14), Isernia 2005.
  28. 28 Templeton (vedi nota 13), p. 85.
  29. 29 Gibellino (vedi nota 11), p. 308.
  30. 30 A. Gios, Non è tutto oro quel che luccica. Ricordi di emigrazione, a cura di D. Stoffella, Vallarsa 1992, p. 86.
  31. 31 M. Aloisi, Odyssey to the World. The Story of my Immigration, Sydney 1992.
  32. 32 Antonini, Schiavi (vedi nota 22), pp. 131, 140.
  33. 33 D. Albera, P. Audenino, P. Corti, «L’emigrazione da un distretto prealpino: diaspora o plurilocalismo?», in: M. Tirabassi (a cura di), Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, Torino 2005, pp. 185-209.
  34. 34 S. Levi della Torre, Essere fuori luogo. Il dilemma ebrei tra diaspora e ritorno, Roma 1995.
  35. 35 N. Glick Schiller, L. Basch, C. Szanton Blanc, Nations Unbound. Transnational Projects, Postcolonial Predicaments, and Deterritorialized Nation-states, Basel 1994; L. Basch, N. Glick Schiller, C. Szanton Blanc (a cura di), Towards a Transnational Perspective on Migration. Race, Class, Ethnicity and Nationalism Reconsidered, New York 1992.
  36. 36 A. James Hammerton, A. Thompson, Ten pound Poms. Australia's Invisibile Migrants, Manchester 2005, p. 312.
  37. 37 Antonini, Schiavi (vedi nota 22), pp. 26, 117, 49.
  38. 38 Gibellino (vedi nota 11), p. 312.
  39. 39 Bozzato (vedi nota 3), pp. 243, 263; per i processi di riscoperta dell’etnicità, cf. W. Sollors, «Contare le generazioni e <sentirsi italiani>» in: Itinera (vedi nota 33), pp. 231-250; K. N. Conzen et al., «The invention of ethnicity, una lettura americana», Altreitalie, 3, 1990, pp. 4-37.
  40. 40 Baldassar (vedi nota 2).
  41. 41 Fitzpatrick (vedi nota 14).