Page:Labi 2009.djvu/50

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delle miniere dell’ovest degli Stati Uniti.[3] Le grandi distanze, ma anche il funzionamento dei cantieri per la realizzazione di grandiose opere pubbliche, a cominciare dalla realizzazione del canale di Suez, imposero allontanamenti pluriennali, che affiancarono quelli stagionali di quanti continuarono a dirigersi in Svizzera, in Germania e in Francia.

Rispetto a questo mutamento nella durata, gli interrogativi sono parecchi. Innanzitutto come sappiamo che i viaggi transoceanici vennero intrapresi con l’obiettivo del ritorno?

Già all’inizio degli anni ‘ 90 del secolo scorso Dino Cinel e Mark Wyman hanno mostrato come, fra il 1908 e il 1923, vale a dire negli anni centrali della grande emigrazione, la propensione al ritorno degli emigranti dall’Italia settentrionale si collocasse, con il suo 37 percento, nella fascia più alta dei rimpatri fra gli emigranti europei, superata tuttavia dagli italiani meridionali (60 percento), e da gran parte degli europei dell’est, quali russi, slovacchi, magiari, greci, fino all’89 percento dei serbi, montenegrini e rumeni, collocando tale alta propensione al ritorno in un modello di lunga durata, di migrazioni intense ma di breve raggio.[4] Wyman ci informa anche sul sistema adoperato all’inizio del Novecento dalle autorità austro-ungariche nell’indagine sull’esodo degli sloveni, le cui dimensioni apparivano preoccupanti. Esso fu quello di valutare la percentuale degli sposati fra gli emigranti e di osservare l’andamento delle vendite di terreno, per scoprire che due terzi degli emigranti non erano sposati e che quasi la totalità dei proprietari non aveva venduto i propri terreni. Queste circostanze vennero interpretate come la prova che il progetto migratorio era temporaneo, e che gli emigranti intendevano ritornare. I funzionari italiani non fecero tale controllo, ma a conclusioni analoghe, sia pur con metodi differenti, erano pervenuti i principali osservatori dell’esodo alpino fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quali Jacini e Coletti.[5]

Oggi abbiamo acquisito molte consapevolezze circa le implicazioni demografiche e le conseguenze sulla vita comunitaria e familiare delle assenze stagionali e dei ritorni, anch’essi, stagionali degli uomini da molte comunità delle Alpi. Sappiamo invece meno su come si adattarono i migranti a questo nuovo modello migratorio, che prevedeva il ritorno dopo assenze di molti anni e anche di tutta la vita e su quanto esso sia durato.

Un documento cruciale per tentare di costruire delle scansioni cronologiche che colgano l’evoluzione del ritorno nelle alpi italiane è l’inchiesta dell’INEA sullo spopolamento montano dell’inizio degli anni Trenta del Novecento. In essa, infatti, vengono delineate non solo le caratteristiche dei ritorni