nali, con l’obiettivo del ritorno, quali sono state le percezioni individuali delle differenti cronologie delle assenze e con quali esiti sul ritorno?
Nel 1990, in un suo studio dedicato agli immigrati turchi in Germania, Ruth Mandel verificò come questi ultimi considerassero come «vita vera», solo quella passata a casa per un mese, e non quella dei restanti 11 mesi passati in Germania a lavorare.[24] Le lettere e le testimonianze degli emigranti biellesi descrivono anch’esse con efficacia questa sorta di sospensione o di tregua con cui venne affrontata l’esperienza migratoria, che, in quanto temporanea, venne considerata una pausa necessaria anche se dolorosa nella propria esistenza sociale ed affettiva. Paul André Rosental ha invece distinto fra un space vécu e un espace investi, per definire i luoghi dell’emigrazione, dove si svolge l’esistenza materiale e quotidiana dell’emigrante e quelli dove si materializzano gli obiettivi perseguiti attraverso l’emigrazione.[25] Lo stato d’animo mostrato spesso nelle lettere dei migranti valtellinesi in Australia è stato quello che Jaqueline Templeton ha definito come di «esilio volontario», che gli emigranti si imponevano per conquistare una libertà e una indipendenza future.[26]
Vivere nel futuro permetteva di sopportare i sacrifici presenti. Nelle lettere di Dino S., il più giovane degli emigranti valtellinesi di cui ho tratteggiato la vicenda, emerge come egli avesse sempre davanti a sé il momento del ricongiungimento con la moglie e i figli, quello in cui il suo soggiorno australiano sarebbe stato dietro le spalle e sarebbe entrato a far parte dei ricordi. Alcuni effettivamente tornarono pienamente soddisfatti di quanto avevano conseguito: le aspettative della partenza furono raggiunte e i desideri esauditi.
Ma il ritorno garantì davvero la piena reintegrazione psicologica e sociale degli emigranti? Essi erano immediatamente riconoscibili: Wyman ci informa che un medico svedese dell’Ottocento lamentava che le donne ritornate dall’America erano vestite come dei pavoni, e anche Amy Bernardy, agli inizi del Novecento notò come le ragazze biellesi reduci dagli Stati Uniti fossero notate dai loro compaesani per via dei cappelli grandi come parapioggia.[27] Alcune fotografie scattate in valle di Andorno all’ inizio del Novecento ci mostrano le donne con i tradizionali vestiti di fatica delle valligiane e con le ceste piene di ramaglie sulle spalle, ma gli uomini vestiti alla moda cittadina, con giacca e cravatta. A Tirano, in Valtellina, l’ultimo giorno di carnevale del 1915, alcuni uomini rientrati dall’Australia si travestirono da lavoratori del bush, con la coperta arrotolata sulle spalle e la gavetta per il té: dai compaesani venivano chiamati «gli austraglieri», così come è già stato ricordato l’appellativo di «africani» usato dai biellesi.[28]