Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (1998)/18

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LA FRONTIERA COME RISORSA
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[ 213 ]LA FRONTIERA COME RISORSA IL CONTRABBANDO DI TABACCO NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA IN ETÀ MODERNA


Furio Bianco


Zusammenfassung


Die Grenze als Ressource. Der Tabakschmuggel in der Republik Venedig während der frühen Neuzeit


Der Beitrag befasst sich zunächst mit der spezifischen Bedeutung welche die ländliche Bevölkerung im Ancien régime den Grenzen beimass, je nachdem ob sie Gemeinden, seigneurale Gebiete oder unter staatlicher Souveränität stehende Bezirke betrafen. Dann untersucht er das Phänomen des Schmuggels, insbesondere des heimlichen Handels mit Tabak. Auf der Basis von Prozessakten, Urteilen und juristisch-ökonomischen Dokumenten zu Privatverpachtungen sowie auf der Basis von früheren Studien zu diesen Themen kann ein Bild des Tabakschmuggels für das ganze venezianische Alpengebiet gezeichnet werden. Seine Konnotationen, Gemeinsamkeiten und Verschiedenheiten lassen sich ebenso erkennen wie die Modalitäten der Formierung von grossen bewaffneten Banden und ihre Beziehungen zu den Lokalbevölkerungen und zu den mit der Repression beauftragten Regierungsstellen, dies alles auch im Vergleich mit anderen europäischen Regionen.


Una breve notazione preliminare che, richiamandosi agli interventi di apertura, riconduce da altra prospettiva ai vari significati attribuiti in età moderna al concetto di confine.[1] Indipendentemente dalle teorizzazioni e dalle definizioni da parte di politici, di uomini di cultura, di geografi di generali, in quale modo i confini, una volta istituiti, si radicano nella coscienza collettiva? O, meglio, per contadini e montanari, quali sono i confini? In quale [ 214 ]modo avvertono il limite che li separa da altri contadini e montanari? Nella definizione di questo confine, quanto c’è di provvisorio e quanto - sul lunghissimo periodo- rimane come parte integrante nei loro atteggiamenti mentali e nei loro orizzonti ideologici?

Credo si possa dire innanzitutto che in età di antico regime le popolazioni rurali, in particolare quelle della montagna, hanno una complessa percezione dei confini, operante con particolari connotazioni, a seconda che circoscrivano il territorio di un villaggio, gli ambiti giurisdizionali di una signoria feudale e i comprensori sottoposti alla sovranità dello Stato.

All’interno di una piccola comunità i segni di confine agiscono naturalmente su un piano spaziale, come elementi riconoscibili che delimitano e proteggono le pertinenze fondiarie e i diritti collettivi del villaggio, più o meno ampi in ragione della struttura degli insediamenti, della morfologia del paesaggio o della estensione delle forme di comunismo agrario. In questo senso il patrimonio terriero collettivo - parte integrante del sistema produttivo e dei redditi familiari - costituisce l’elemento materiale su cui si fondano la coesione comunitaria, i legami solidaristici e i circuiti di reciprocità, al di là delle molteplici articolazioni presenti all'intemo del villaggio, delle disparità sociali o dei conflitti tra casate, a volte particolarmente accentuati.

Ma il tracciato visibile del circondario comunale ha anche una proiezione sul piano mentale, culturale e ideologico. Per gli abitanti da un lato custodisce la memoria storica, conserva lo spazio nel tempo e consolida il legame col passato; dall’altro racchiude quell’insieme di norme, di valori, di beni materiali e di relazioni che nella coscienza collettiva contrassegnano l’identità e l’autonomia del villaggio, riconoscendogli peculiarità e valori in qualche modo alternativi rispetto all’universo composito degli altri villaggi, anche limitrofi, ritenuti comunque «separati» e «diversi», sulla base di sollecitazioni e pratiche comportamentali che presentano interessanti analogie con quelle - legate ai concetti di identificazione - elaborate dalla psicologia (in termini di «epistemologia genetica») nell’analizzare le modalità con cui al neonato viene imposto di imparare a reagire nei confronti dell’esterno e a distinguere sé stesso dagli altri.

Da ciò, ad esempio, la trasmissione della memoria collettiva affidata a rituali di iniziazione finalizzati al riconoscimento dei confini della comunità già a partire dalla più tenera età, in modo che i bambini condotti in alcuni punti lungo il tracciato confinario e là picchiati si ricordassero dell’episodio e con questo dei luoghi di confine.[2] Da ciò le dispute ai confini con le altre comu[ 215 ]nità, con altri «universi» da sempre competivi, occasioni per tramandare di generazione in generazione attraverso giochi simbolici e aggressivi le diversità tra le comunità di appartenenza, come nella storia dei ragazzi dei paesi di Longeverne e di Verlans raccontata Louis Pergaud.[3]

Ma molto più spesso - come nei distretti orientali della Repubblica di Venezia - le competizioni tra comunità confinanti perdevano ogni valenza rituale e simbolica, sfociando per tutta l'età moderna in violente prove di forza che il più delle volte degeneravano in un lungo stillicidio di episodi sanguinosi, di ritorsioni e di vendette, interrotti da compromessi e da provvisorie pacificazioni. La posta in gioco non era costituita soltanto da ragioni materiali o da rivendicazioni territoriali, ma anche da motivazioni «ideologiche», connesse in qualche modo ad un insieme complesso fatto di principi e di pregiudizi, come prestigio, onore, intolleranza. Tutto ciò contribuiva ad accentuare il particolarismo comunitario, rafforzando i legami vicinali e attribuendo al confine la prevalente funzione di chiusura nei confronti dell’esterno. «Tale è la unione che passa fra gli individui di quella nazione - scrisse in un capitolo della sua difesa un contrabbandiere catturato dagli abitanti di un villaggio nelle Alpi Carniche - che l’interesse di uno è sempre l’interesse di tutti, quando massime si tratta di interessi contro a’ forestieri.»[4]

D’altra parte, se per gli abitanti i confini sembrano tutelare l’integrità della comunità villaggio dalle minacce indefinite di quanti - viaggiatori, funzionari, sbirri, o forestieri - si riteneva potessero l’identità incrinare in qualche modo corrompere la stabilità interna, modificare la struttura territoriale del villaggio, violare le regole di vita o, comunque, provocare semplicemente «un mucchio di grattacapi» - come l’accusa mossa all’agrimensore K. nel Castello di Kafka[5] - tuttavia le barriere di confine diventano lo strumento istituzionale per emarginare ed escludere dai benefici comunitari anche quei nuclei di famiglie immigrate, residenti da anni o da più generazioni all’interno del villaggio. La loro assimilazione giuridica e istituzionale con i discendenti delle casate che in origine avevano colonizzato il territorio poteva avvenire solamente a conclusione di un formale pronunciamento dell’assemblea dei capifamiglia, seguito da un cerimoniale antico, cadenzato da rigide norme rituali, prolungatesi nel tempo (il giuramento di fedeltà, l’atto di sottomissione, il pagamento di una tassa, ecc).

Di conseguenza - nel ’500 come nel ’700, nelle vallate alpine come nelle terre friulane o nell’Europa orientale[6] - un cippo, un corso d’acqua, un bosco, una radura, un albero o una roccia incisi continuarono a segnalare agli abi[ 216 ]tanti del villaggio i margini entro cui operavano ancora regole, consuetudini e prerogative della propria comunità: una soglia, oltrepassata la quale si inoltravano in spazi incerti, non familiari e meno protetti dove venivano meno i sistemi di sicurezza e si diventava emigranti e foresti.

Tanto appaiono stabili, impenetrabili e invariabili nel tempo i confini della comunità, tanto vengono considerati estranei, precari, e vulnerabili i confini tra due stati sovrani, anche quando seguono il tracciato di frontiere ecologiche e fisiche o quando, come nel caso della Repubblica Veneta, si mantengono pressoché inalterati per tutta l'età moderna. O, perlomeno, sembra essere messo continuamente in crisi quel concetto di frontiera come elemento ordinatore e repulsivo tra spazi e organismi statali contermini. Mentre scoppia la prima guerra mondiale, il vecchio Tònle Birtan, descritto da Mario Rigoni Stern, uomo di confine, montanaro, pastore, contrabbandiere, ambulante durante la latitanza, guardando gli aerei che sorvolano la sua valle dirigendosi oltre le linee nemiche, si chiede perplesso se per lui o per la sua gente la frontiera fosse mai esistita, o se piuttosto quella linea di demarcazione immaginaria e misteriosa esistesse solamente in quanto presidiata da gabellieri da corrompere e «da gendarmi da evitare».[7]

Le riflessioni di Tònle Birtan riconducono a quell’ insieme di valori, di convincimenti individuali e collettivi che sopravvissero a lungo nella mentalità e nei comportamenti delle genti di montagna, forme residuali del passato, per molti aspetti estranee e antagonistiche rispetto alla razionalità e alle logiche economiche. Basterebbe richiamarci, per fare un esempio, al concetto di proprietà, ormai acquisito alla fine dell’800 nelle norme giuridiche e nel pensiero economico come possesso «pieno, assoluto e inviolabile». Nonostante fosse ormai da decenni concluso il processo che aveva portato alla privatizzazione dei demani collettivi nei comprensori delle Prealpi cadorine e carniche - segnalò un collaboratore per la grande inchiesta agraria Jacini - sopravviveva la consuetudine, radicata nella mentalità popolare, di considerare quelle selve ancora d’uso comune, aperte allo sfruttamento di tutte le famiglie del villaggio, sulla base della antica credenza «che i frutti della terra, specialmente quelli che non derivavano dalla fatica dell’uomo, fossero destinati a satollare i più poveri» e quindi potevano essere utilizzati senza commettere alcun reato.[8]

La frontiera fu soprattutto luogo di congiunzione, di espansione e di scambi, fonte di attività che improntarono la vita materiale e gli orizzonti culturali delle popolazioni frontaliere. L’andirivieni di carri, di merci e di uomini lungo [ 217 ]le grandi vie commerciali che collegavano i fondaci veneziani all’Europa centrale e orientale, la dislocazione in prossimità dei valichi alpini di magazzini, di stazioni di posta, di mercati, di uffici daziari e di presidi offrivano alle genti dei due versanti occupazioni e cespiti di entrata integretativi alle attività agro-silvo-pastorale, mentre la sorveglianza dei passi affidata in circostanze eccezionali alle comunità locali continuò a garantire per tutta l’età moderna immunità, privilegi e esenzioni fiscali.

Il governo marciano continuò ad attribuire grande importanza al controllo dei confini, non solo a salvaguardia delle sue prerogative sovrane, ma soprattutto a tutela dei suoi interessi economici, fondati in gran parte - come è noto - su una politica commerciale e industriale, contrassegnata da rigide norme protezionistiche, vincolistiche e monopolistiche, tanto che le voci d’entrata più consistenti nel bilancio dello Stato rimanevano legate a quell’insieme di dazi e di gabelle imposti a tutte le merci in circolazione in entrata e in uscita, provviste di bollette di circolazione rilasciate dagli uffici veneziani o dalle Camere fiscali di terraferma. Si trattava di un fiscalismo pesante, reso più oppressivo e indiscriminato per il fatto che colpiva sia i generi voluttuari sia i prodotti di più largo consumo, indispensabili al sostentamento delle popolazioni delle città e della campagna, i profumi esotici della cortigiana, come la rocca e il fuso di una vecchia montanara o gli utensili in legno che un valligiano smerciava di porta in porta. «Quando si ragiona di daciari et gabellieri, par che si nomini il diavolo e peggio [...]. Né basta il dacio dal pane, dal vino, dal sale, dal fieno, dall’orzo, dalle bestie, dai panni vendibili, da tutte le specie di mercantia - denunciava verso la metà del ’500 con malevolo e sferzante sarcasmo Tommaso Garzoni nella sua "Piazza universale di tutte le professioni" - che un di su l’urina guasta si porrà una gabella, acciò che ’l mal della renella venga per forza a tutti.»[9]

D’altra parte la rigidità delle normative e la severità delle pene previste contrastavano con l’ampiezza delle evasioni fiscali che un farraginoso apparato di controllo e di repressione non era in grado di fronteggiare e circoscrivere, offrendo varchi sempre più ampi al commercio di frodo e al contrabbando, vanificando la promulgazione di bandi e decreti sempre più rigorosi e particolareggiati, tanto che - come sottolineò con rassegnata impotenza nel gennaio del 1719 l’Inquisitore ai dazi Giovanni Battista Lippamano in una relazione al Doge - «Tutti li studii e le applicationi non servono che per accrescere il dolore, rendendo la malitia de contrabandieri et la loro forza deluse tutte le meditationi.»[10] [ 218 ]Agli inizi del ’700 il contrabbando sembra espandersi incontrollato,[11] nonostante la progressiva mobilitazione di contingenti militari, la designazione della materia a diverse magistrature cittadine e la delegazione dei procedimenti penali al temuto tribunale degli Inquisitori di Stato, che procedeva sbrigativamente e con rito segreto, mentre economisti, politici e giuristi erano ormai costretti ad ammettere con disarmante chiarezza che anche l’opinione pubblica giudicava il reato di contrabbando con bonaria tolleranza.

Si traffica di tutto e in ogni luogo.[12] Lungo le soste istriane e dalmate, a ridosso dei confini con l’impero, col Mantovano, con gli Stati pontifici e col Milanese. Contrattazioni e affari vengono stipulati in luoghi insospettabili, in conventi, in monasteri e in palazzi patrizi, a Venezia e in terraferma. Un flusso ininterrotto di olio, di sale, di granaglie, di sete grezze, di panni di lana, di tabacco, di vino, di pesce salato, di legnami attraversa l’Adriatico, il lago di Garda e i gli impervi sentieri che si diramano dalle valli alpine, dalle province di Bergamo e di Brescia al Friuli.

Lungo tutto l’arco alpino un fittissimo dedalo di varchi, impossibili da controllare e tanto meno da presidiare, permette lo scavalcamento dei confini a contrabbandieri occasionali o abituali, isolati o in grosse formazioni, rinforzati da malviventi e banditi che nelle contrade e nelle foreste della montagna avevano trovato covi e asili, o, ancora, da quella folla di emigranti stagionali e di mereiai ambulanti con la cassetta e il fagotto sulle spalle che entra clandestinamente nelle terre dell’impero, eludendo le misure restrittive adottate dal governo dopo la metà del ’700.

Per le popolazioni valligiane, che conoscono il proprio territorio palmo a palmo e sono in grado di oltrepassare le montagne in ogni stagione e smistare ogni genere di mercanzia, il confine costituisce una fonte di risorse monetarie, di sicuro affidamento, cumulabili in ragione della dimensione dell’impresa o dell’ampiezza del raggio di azione nelle operazioni di smistamento delle merci. I rischi erano contenuti, tenuto conto che i contingenti militari incaricati di reprimere il contrabbando non erano in grado di presidiare le zone di confine, sia per l’asperità dei luoghi e l’esiguità delle forze a disposizione, sia per l’ostilità delle popolazioni locali, preferendo tentare di interrompere il flusso delle merci in pianura. Del resto per gli sbirri sorprendere i contrabbandieri o stanarli dai loro covi erano imprese quasi impossibili, mentre il pattugliamento delle aree più marginali poteva costituire molto spesso un’avventura piena di rischi e quasi disperata. Nel corso della spedizione una squadra di spadaccini poteva essere circondato, disarmato o anche annientato. [ 219 ]come avvenne nel 1763 in Friuli, quando l’intero distaccamento di stanza nella città di Cividale, in perlustrazione nelle alte valli della cosiddetta Schiavonia veneta, sorpreso mentre si accampava in un bivacco, venne massacrato dagli abitanti che, non visti, lo avevano tallonato per giorni in attesa del momento più propizio per assalirlo.[13]

Ma già il superamento della frontiera e il trafficare entro un breve raggio offrivano buone opportunità di guadagno. Nell’agosto del 1728 Charles-Louis di Montesquieu, iniziando il suo viaggio in Italia, annotò nel suo diario come, superato il confine provenendo dalla Carniola, entrato nello Stato veneto tutto costasse improvvisamente il doppio, dai prodotti di largo consumo al vitto per gli stranieri.[14]

Tra gli innumerevoli prodotti contrabbandati nel corso del ’700 sicuramente il tabacco offriva profitti tra i più sicuri e consistenti. Per tutta l’età moderna, a partire dal 1681, l’importazione, la distribuzione, l’esportazione e la coltivazione dell ’erba regina rimasero sottoposte ad un rigido regime di monopolio, disciplinato inizialmente dalle regolamentazioni emanate nel febbraio del 1654, in seguito dalle norme relative emanate per l’assegnazione a privati su base d’asta. Dalla prima concessione, aggiudicata nel 1657 a Francesco Rinaldi per sei anni dietro l’esborso complessivo di 46’000 ducati, la condotta del tabacco ebbe un incremento costante e continuo. La seconda assegnazione venne attribuita per 85’500 ducati, con un incremento di poco meno del 90% rispetto alla prima condotta, mentre la tendenza ad un forte rialzo non subì significative interruzioni, permettendo all’erario di incamerare un gettito ragguardevole di risorse monetarie considerando che l’ultima condotta venne assegnata da Girolamo Manfrin, disposto ad offrire oltre 7 milioni di ducati, circa 600’000 ducati annui. Si trattava di una somma enorme, superiore di quasi tre volte gli introiti annuali dell’imposta fondiaria.[15] Le ragioni di questo incredibile incremento, quasi 80 volte superiore rispetto alla prima concessione, sono individuabili soprattutto nella rapidissima diffusione del consumo di tabacco - da fiuto, da fumo, da masticare, in foglia, miscelato in polvere - presso ogni categoria sociale, tra le classi agiate come tra i ceti meno abbienti, divenuto ben presto uno di quei lussi elementari e indispensabili, con una fortuna ancora maggiore di quella del tè o del caffè, in grado di «sedurre» - per dirla con Victor Kiernan - ogni razza, ogni classe, dell’età dall’adolescenza alla tomba.[16] Tanto che ben presto nel corso del ’700 nella composizione del salario previsto per le compagnie di boscaioli ingaggiati dai mercanti di legname era espli[ 220 ]citamente indicata nei contratti la quota giornaliera di tabacco che gli impresari dovevano corrispondere agli operai.

È evidente che tutto ciò assecondava le aspettative di mercanti e fermieri, fiduciosi di conseguire rapidi profitti e disposti a rilevanti esborsi, con forti anticipi, pur di vincere la concorrenza degli avversari. Basti un esempio. Nel 1718 la condotta venne aggiudicata per un sessennio a Domenico Pedretti. Secondo l’impresario e i magistrati veneziani in quegli anni si verificò una rilevante contrazione delle vendite presso le botteghe della Ferma, sia per una repentina espansione del contrabbando sia per una ulteriore diffusione della coltivazione di frodo del tabacco, lungo le dorsali alpine e prealpine. Ma, come verificò un magistrato veneziano dallo spoglio della contabilità del Pedretti, nonostante le perdite e i mancati guadagni la condotta aveva garantito un utile, al netto di ogni spesa e onere, di oltre 180’000 ducati,[17] cioè quasi il 20% del capitale investito, una remunerazione, difficilmente ottenibile in altri comparti produttivi e finanziari.

D’altra parte il rapido aumento del consumo e del prezzo del tabacco venduto nelle botteghe della Ferma - passato in pochi decenni da 4 a 24 soldi la libbra nelle confezioni in foglia e da 6 a 30 per quelle in polvere - avevano favorito un notevole sviluppo del contrabbando e della coltivazione abusiva, che si erano sviluppati nei distretti montuosi e soprattutto nei comprensori a ridosso dei confini.

Innanzitutto esisteva un commercio clandestino esercitato da una folla variegata di persone isolate, costituita da contadini, pastori, taglialegna, carbonai, vagabondi e girovaghi che si dedicavano saltuariamente a questo traffico, rientrando generalmente alle occupazioni abituali dopo una fortunata spedizione, una folla ingrossata periodicamente dagli emigranti quando alla fine della primavera rientravano nei paesi d’origine. Si trattava di un contrabbando di vaste proporzioni per il numero delle persone coinvolte, difficilmente controllabile e perseguibile, destinato ad alimentare con mille rivoli tutto il «dannatissimo traffico».

Alcune decine di libbre, nascoste in un fagotto o riposte tra indumenti e mercanzie potevano costituire un ottimo investimento e un importante reddito aggiuntivo al bilancio familiare. Acquistato a 14-20 soldi la libbra, il tabacco poteva essere smerciato ad un prezzo estremamente favorevole, tenuto conto che l’appaltatore era tenuto a corrispondere all’erario poco meno di 50 soldi per libbra.

Di conseguenza, una spedizione di pochi giorni poteva garantire ad un [ 221 ]lavoratore agricolo un ottimo affare. I due giovani che agli inizi di ottobre del 1787 avevano abbandonato i lavori della vendemmia aggregandosi alla comitiva che era andata a rifornirsi ad Ala, nel vescovado di Trento, sorpresi e catturati dopo due giorni da una pattuglia di sbirri sulle colline sovrastanti Vicenza, persero il bottino di 150 libbre da cui avrebbero potuto ricavare un guadagno netto superiore al salario percepito in un intero anno lavorativo.[18]

Accanto a questi piccoli spacciatori agivano le grosse bande formate da decine di persone armate, da spalloni e da pastori, che in lunghe carovane prelevavano il tabacco oltre confine, lo custodivano in ricoveri di montagna per poi distribuirlo in pianura con una fitta rete di trafficanti. In altre occasioni, come denunciavano i rettori veneziani, ondeggiando tra velleitaria durezza e rassegnata impotenza, le bande vendevano direttamente il tabacco anche nei borghi più grandi e nelle città, dopo aver occupato armi alla mano le piazze, i ponti e le porte, imponendo l’acquisto agli stessi agenti o ai subappaltatori della Ferma, utilizzando tattiche e strategie che hanno sorprendenti analogie con quelle adottate dalle grosse formazioni di contrabbandieri che operavano in altri contesti, nel Delfinato o nella Franca Contea.[19] In taluni episodi sembra di rivivere le gesta di Louis Mandrin e della sua banda, quasi che i personaggi, pur in contesti e situazioni diversi, agissero sulla base di un medesimo canovaccio. Un esempio. Nel 1782 un numeroso gruppo di contrabbandieri, apparentemente inquadrato nei contingenti delle cernide, le milizie rurali, presente nei dintorni di Vicenza per l’annuale mostra, entrò festosamente in città, ostentando ogni genere di armi da fuoco, in aperta violazione a quanto previsto dalla legge. Scortava muli carichi di tabacco, in un lungo corteo, preceduto da suonatori di violino, tra canti, danze e schiamazzi. Scomparsi sbirri, gabellieri e soldati, si sparpagliarono a gruppi per ogni contrada, «vendendo impunemente la rea merce in ogni luogo, tanto pubblico che privato - sottolineò il luogotenente veneziano con disappunto - giungendo persino ad esibirla nel pubblico Palazzo, danzando e cantando a loro modo» e distruggendo i ricoveri dei soldati di guardia al palazzo, fuggiti precipitosamente.[20]

Le perdite per l’appalto erano indubbiamente consistenti - in un periodo di recrudescenza del fenomeno del contrabbando, attorno agli anni ’80, vennero calcolate in circa 430’000 ducati per un triennio - ma non tali da delimitare il numero dei concorrenti alle gare d’asta e l’aumento costante delle offerte. D’altra parte l’appaltatore poteva facilmente rientrare dalle perdite, aumentando sia gli oneri ai subappaltatori sia soprattutto i prezzi per i consuma[ 222 ]tori, con la conseguenza di favorire un’ulteriore espansione del contrabbando e di attirarsi le vibrate proteste popolari.[21]

Nonostante l’adozione di rigorose misure di sorveglianza, la mobilitazione di contingenti dell’esercito e l’arruolamento tra i ranghi degli spadaccini alle dirette dipendenze del fermieri di persone spregiudicate e di pochi scrupoli - cui venivano garantiti premi, taglie e alte remunerazioni (in alcune circostanze il capo di una squadra speciale poteva vantare un salario di ben 1200 ducati annui, escluse mance e taglie) - avessero permesso a più riprese il ridimensionamento del fenomeno del contrabbando, la tradizionale struttura del traffico di frodo rimase sempre solida e operante per tutto il ’700, tanto che ad una fase regressiva, susseguente ad una fortunata campagna repressiva, a distanza di poco tempo ne seguiva un’altra di rapida espansione.

Nelle province venete le roccaforti del contrabbando su vasta scala si radicavano in alcune zone, per molti decenni vere e proprie aree franche, disposte soprattutto verso i confini orientali, sull’altipiano dei Sette Comuni Vicentini, in particolare nel centro di Foza, posto ad oltre 1000 metri di altitudine, tra la Val Frenzola e la Val Vecchia e in alcuni villaggi del Cadore - dove le comunità vantavano antichi diritti di coltivazione, progressivamente ridimensionati o aboliti - nelle valli delle Prealpi carniche e nei distretti slavi dell’alto Friuli. Le bande potevano contare sul sostegno delle popolazioni locali, in grado di offrire ricoveri, aiuti e una solida struttura logistica, rafforzata dalla natura dei luoghi. Esisteva innanzitutto una immediata e quasi naturale simpatia popolare per il contrabbandiere, spesso ammirato e difeso in quanto era in grado di assicurare il rifornimento e la circolazione di ogni genere di mercanzie ad un prezzo sensibilmente più basso rispetto a quello praticato nelle botteghe degli appalti, dove - tra l’altro - molti prodotti, anche di prima necessità, non erano sempre disponibili: «Malheur, malheur aux commisi / À nous bonheur et richesse! / Le peuple à nous s’interesse: / Il est de nos amis. / Oui, le peuple est partout de nos amis; / Oui, le peuple est partout, partout de nos amis!» recitava il ritornello di una ballata di Pierre-Jean Béranger.[22]

Il consolidamento dei buoni rapporti era favorito dalla composizione delle bande, le cui fila, costituite da contrabbandieri del luogo, venivano periodicamente ingrossate da spalloni, intermediari e spacciatori, coinvolti nelle attività delle bande. Inoltre i capibanda o i trafficanti più autorevoli appartenevano spesso - come nel caso dei Fozati o dei valligiani delle Prealpi Carniche - a dinastie di contrabbandieri, avevano rapporti di parentela e di [ 223 ]clientela con le famiglie dei villaggi e potevano contare su una fitta rete di complicità e di omertà che rendevano quanto mai difficili le iniziative repressive.

Nelle comunità della Valcellina esisteva una compatta struttura, fatta di larghe solidarietà e di strette connivenze. Tutto il contrabbando avveniva sotto il diretto controllo di una banda, con una complessa e articolata organizzazione interna. Al vertice un gruppo di famiglie in grado di anticipare ingenti somme per l’acquisto di grosse partite di tabacco e per l’allestimento delle carovane. Ad un livello intermedio i più stretti collaboratori, dislocati in ogni villaggio, che proteggevano con le armi i convogli, mantenevano i contatti con i rifornitori austriaci, contattavano gli informatori e predisponevano i magazzini dove veniva depositata la merce. Alla base la manovalanza e la folla dei montanari, ingaggiati per il trasporto del tabacco. I proventi e le risorse che affluivano nelle vallate erano ingenti: in una inchiesta del 1795 venne calcolato un guadagno annuo di oltre 10.000 ducati, in grado di garantire ampiamente il sostentamento di tutta la popolazione dei villaggi.[23]

Le imprese di molte di queste bande - alcune delle quali disperse dopo una estenuante caccia durata per anni - si radicarono a lungo nella memoria e neH’immaginario collettivo delle popolazioni rurali, soggiogando gli indecisi, intimorendo gli avversari, accattivandosi le simpatie di quanti si sentivano defraudati dai provvedimenti degli appaltatori che imponevano alti prezzi o spiantavano le coltivazioni di tabacco, intaccando antichi o più recenti privilegi.

Ciò ci aiuta a comprendere come le bande potessero contare anche sugli appoggi delle comunità pedemontane che non solo non perseguivano banditi e contrabbandieri, come previsto dalla legge, ma - soprattutto in alcune zone del Friuli dove esisteva un ribellismo quasi endemico e dove nella seconda metà del ’700 si susseguirono tumulti e sollevazioni contadine - affrontavano armi alla mano le pattuglie di sbirri della Ferma mandate in perlustrazione o costrette a dirigersi verso i villaggi in quota. Episodi dove i rituali dello charivari, con le grida di scherno, le plateali proteste e le percosse lasciavano molto spesso il posto a violenze esasperate e a brutali linciaggi.

Resta ancora da sottolineare come negli ultimi anni della Repubblica da parte di inquisitori, confidenti e funzionari di polizia la figura del contrabbandiere isolato, del cramaro o del montanaro che scavalcavano abitualmente i confini per rifornirsi di tabacco, fosse associata sempre più frequentemente a quella del sovversivo, dell’agitatore politico, pericoloso per la sta[ 224 ]bilità sociale soprattutto perché sembrava dare voce al malcontento e ai risentimenti popolari contro il fiscalismo, l’elevato prezzo dei cereali e le prepotenze dei signori. Come il cárnico Giambattista Polo, ritenuto «consuetudinario pubblico contrabbandiere», ma anche «perturbator della común quiete» che nelle osterie e nelle fiere propagandava apertamente le sue idee, proclamando ripetutamente - annotò il giudice inquisitore - che «i sudditi quando vogliono tutti sono i padroni e che voleva bruciar tutto e andar in Francia a goder la Libertà».[24]

Dopo la caduta della Repubblica il contrabbando di tabacco continuò a sopravvivere, ormai circoscritto e ridimensionato da nuove e più efficienti strutture repressive. Rimasero ancora le frontiere, con i varchi e con le opportunità che potevano offrire a chi sapeva sfruttarli e superarli.


Note

1 Sulle problematiche relative alle definizioni di confine, elaborate da diverse prospettive disciplinari, vedi Raimondo Strassoldo, Temi di sociologia delle relazioni sociali. La società globale. Ecologia delle potenze. La teoria dei confini, Gorizia 1979, pp. 133-202.

2 Massimo Guidetti, Paul H. Stahl (ed.). Il sangue della terra. Comunità di villaggio e comunità familiari nell’Europa dell’800. Milano 1977, p. 21.

3 Louis Pergaud, La guerra dei bottoni. Trieste 1994.

4 Biblioteca Comunale di Udine, Difese criminali. Civili. Miste, ed altro di Francesco Duodo avvocato. Fondo principale, manoscritto n. 1084, c. 316.

5 Franz Kafka, Il castello. Milano 1991, p. 85.

6 Sull’organizzazione e sul particolarismo delle comunità di villaggio nei domini orientali della Repubblica di Venezia e nell’Europa danubiana, cfr. Furio Bianco, Le comunità di villaggio della Carnia (secoli XVII-XIX). Udine 1985; Idem, «Unfeudo benedettino nella montagna friulana in età moderna», in: Il feudo benedettino di Moggio (secoli XV-XVIII). Udine 1995; Henri H. Stahl, La comunità di villaggio. Tra feudalesimo e capitalismo nei Principati danubiani. Milano 1976.

7 Mario Rigoni Stern, Storia di Tònle. Torino 1978, p. 59.

8 Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni delle classi agricole, voi. IV, Roma 1882, p. 45.

9 Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia 1587, p. 853.

10 Archivio di Stato di Venezia, Cinque savi alla mercanzia, serie seconda, b. 171.

11 Un quadro complessivo del contrabbando, in particolare del sale, agli inizi del secolo, in ibid.. Cinque savi alla mercanzia. Diversorum, b. 352 e ibid.. Cinque savi alla mercanzia, serie prima, b. 890.

12 Sul fenomeno del contrabbando nella Repubblica di Venezia, cfr. Pompeo Molmenti, «Il contrabbando sotto la Repubblica Veneta», in: Atti dell’I. Ist. di Scienze. Lettere ed Arti. LXXVI, parte seconda, pp. 977-1021; Egidio Rossini - Giovanni Zalin, Uomini, grani e contrabbandi sul Garda tra Quattrocento e Seicento. Verona 1985; Paolo Preto, «Il contrabbando e la frontiera: un progetto di ricerca», estratto da La frontiera da Stato a Nazione. Il caso Piemonte, pp. 311-327; Michela Dal Borgo, «Contrabbando e bande armate [ 225 ]nella campagna trevisana (Secolo XVIII)», in: Storiadentro, 3,1980,13-21; Furio Bianco, Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del Settecento, Pordenone 1995 (II ed.) e «Ribellismi, rivolte antifiscali e repressione della criminalità neiristria del ’700», in: Acta Histriae III, Koper 1994, pp. 149-164.

13 Gli atti del processo, in Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci. Processi criminali. Udine, b. 9.

14 Charles-Louis Montesquieu, Viaggio in Italia. Bari 1995, p. 4.

15 Furio Bianco, Contadini cit., pp. 87-101.

16 Victor G. Kiernan, Storia del tabacco. L’uso, il gusto, il consumo nell’Europa moderna. Venezia 1993, p. 15.

17 Archivio di Stato di Venezia, Cinque savi alla Mercanzia, b. 111. memoria mercantile n. 3.

18 Ibid., Inquisitori di Stato, b. 1149 (20/10/1787).

19 Per quanto riguarda la vasta produzione storiografica, mi limito a segnalare, Marie-Hélène Bourquin-Emmanuel Hepp, Aspects de la contrebande au XVIIIsiècle. Paris 1969; Bernard Briais, Contrebandier du sei. La vie des faux sauniers au temps de la gabelle. Paris 1984; Marc Vigié, L’Herbe à Nicot. Amateurs de tabac. fermiers généreax et contrebandiers sous l’Ancien Regime. Paris 1989.

20 Ibid., Consiglio dei Dieci. Processi criminali. Vicenza, b. 34.

21 Verso la fine del ’700 proliferò una vasta e variegata letteratura, fatta di sonetti e ballate satiriche, divulgati nei salotti, nelle contrade, nei mercati e nelle osterie, che colpivano in particolare Girolamo Manfrin, l’ultimo appaltatore della Ferma tabacchi. Alcuni esempi in Biblioteca del Museo Corre di Venezia, codice Cicogna, n. 2947.

22 L’ode sui contrabbandieri del Béranger, in Pompeo Molmenti, Il contrabbando, cit., pp. 978-979.

23 Sulla «ria setta» della Valcellina, cfr. Furio Bianco, Contadini cit., pp. 135-142.

24 Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, b. 352.

  1. 1 Sulle problematiche relative alle definizioni di confine, elaborate da diverse prospettive disciplinari, vedi Raimondo Strassoldo, Temi di sociologia delle relazioni sociali. La società globale. Ecologia delle potenze. La teoria dei confini, Gorizia 1979, pp. 133-202.
  2. 2 Massimo Guidetti, Paul H. Stahl (ed.). Il sangue della terra. Comunità di villaggio e comunità familiari nell’Europa dell’800. Milano 1977, p. 21.
  3. 3 Louis Pergaud, La guerra dei bottoni. Trieste 1994.
  4. 4 Biblioteca Comunale di Udine, Difese criminali. Civili. Miste, ed altro di Francesco Duodo avvocato. Fondo principale, manoscritto n. 1084, c. 316.
  5. 5 Franz Kafka, Il castello. Milano 1991, p. 85.
  6. 6 Sull’organizzazione e sul particolarismo delle comunità di villaggio nei domini orientali della Repubblica di Venezia e nell’Europa danubiana, cfr. Furio Bianco, Le comunità di villaggio della Carnia (secoli XVII-XIX). Udine 1985; Idem, «Unfeudo benedettino nella montagna friulana in età moderna», in: Il feudo benedettino di Moggio (secoli XV-XVIII). Udine 1995; Henri H. Stahl, La comunità di villaggio. Tra feudalesimo e capitalismo nei Principati danubiani. Milano 1976.
  7. 7 Mario Rigoni Stern, Storia di Tònle. Torino 1978, p. 59.
  8. 8 Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni delle classi agricole, voi. IV, Roma 1882, p. 45.
  9. 9 Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia 1587, p. 853.
  10. 10 Archivio di Stato di Venezia, Cinque savi alla mercanzia, serie seconda, b. 171.
  11. 11 Un quadro complessivo del contrabbando, in particolare del sale, agli inizi del secolo, in ibid.. Cinque savi alla mercanzia. Diversorum, b. 352 e ibid.. Cinque savi alla mercanzia, serie prima, b. 890.
  12. 12 Sul fenomeno del contrabbando nella Repubblica di Venezia, cfr. Pompeo Molmenti, «Il contrabbando sotto la Repubblica Veneta», in: Atti dell’I. Ist. di Scienze. Lettere ed Arti. LXXVI, parte seconda, pp. 977-1021; Egidio Rossini - Giovanni Zalin, Uomini, grani e contrabbandi sul Garda tra Quattrocento e Seicento. Verona 1985; Paolo Preto, «Il contrabbando e la frontiera: un progetto di ricerca», estratto da La frontiera da Stato a Nazione. Il caso Piemonte, pp. 311-327; Michela Dal Borgo, «Contrabbando e bande armate
  13. 13 Gli atti del processo, in Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci. Processi criminali. Udine, b. 9.
  14. 14 Charles-Louis Montesquieu, Viaggio in Italia. Bari 1995, p. 4.
  15. 15 Furio Bianco, Contadini cit., pp. 87-101.
  16. 16 Victor G. Kiernan, Storia del tabacco. L’uso, il gusto, il consumo nell’Europa moderna. Venezia 1993, p. 15.
  17. 17 Archivio di Stato di Venezia, Cinque savi alla Mercanzia, b. 111. memoria mercantile n. 3.
  18. 18 Ibid., Inquisitori di Stato, b. 1149 (20/10/1787).
  19. 19 Per quanto riguarda la vasta produzione storiografica, mi limito a segnalare, Marie-Hélène Bourquin-Emmanuel Hepp, Aspects de la contrebande au XVIIIsiècle. Paris 1969; Bernard Briais, Contrebandier du sei. La vie des faux sauniers au temps de la gabelle. Paris 1984; Marc Vigié, L’Herbe à Nicot. Amateurs de tabac. fermiers généreax et contrebandiers sous l’Ancien Regime. Paris 1989.
  20. 20 Ibid., Consiglio dei Dieci. Processi criminali. Vicenza, b. 34.
  21. 21 Verso la fine del ’700 proliferò una vasta e variegata letteratura, fatta di sonetti e ballate satiriche, divulgati nei salotti, nelle contrade, nei mercati e nelle osterie, che colpivano in particolare Girolamo Manfrin, l’ultimo appaltatore della Ferma tabacchi. Alcuni esempi in Biblioteca del Museo Corre di Venezia, codice Cicogna, n. 2947.
  22. 22 L’ode sui contrabbandieri del Béranger, in Pompeo Molmenti, Il contrabbando, cit., pp. 978-979.
  23. 23 Sulla «ria setta» della Valcellina, cfr. Furio Bianco, Contadini cit., pp. 135-142.
  24. 24 Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, b. 352.