Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (1998)/19

From Wikisource
Jump to navigation Jump to search
please do not remove empty parameters (see the template documentation).
Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen  (1998)  by [[Author:{{{author}}}|{{{author}}}]]
«LA NATURA DE CINGARI»
source: Index:Labi 1998.djvu

[ 227 ]«LA NATURA DE CINGARI» IL SISTEMA MIGRATORIO DALLA CARNIA DURANTE L'ETÀ MODERNA


Giorgio Ferigo


Zusammenfassung


«Die Natur der Zigeuner». Das Migrationssystem in Karnien während der frühen Neuzeit

Im Dezember 1678 brach in Wien die Pest aus. Die Republik Venedig, sogleich in Alarmstimmung versetzt, ordnete eine Reihe von Vorsichtsmassnahmen an, darunter eine Erhebung der Emigranten aus Karnien. In der Erhebung - der wichtigsten frühneuzeitlichen Quelle zur Emigration im Untersuchungsgebiet - werden 1690 abwesende Personen genannt, was 8% der Gesamtbevölkerung ausmachte. Unter den Männern über 15 Jahren war der Anteil mit 25% noch wesentlich höher. Diese periodische Auswanderung aus Karnien kannte zwei Hauptformen mit je eigenen, zum Teil weit entfernten Zielgebieten: In den nördlichen Dörfern überwog die kommerzielle, in den südlichen Dörfern die handwerkliche Emigration. Auf der Grundlage von ganz unterschiedlichen Dokumenten untersucht der Beitrag die Kontinuität und den Wandel der Zielgebiete und der Periodizität, die mit der Emigration verbundenen Kreditbeziehungen, die gleichzeitige Immigration und die sozialen Effekte des Systems.


1. Dove l’arco orientale delle Alpi, piegando verso l’Adriatico, chiude a corona la pianura friulana, si trova la Carnia, il cui territorio abbraccia per intero il bacino dell’alto Tagliamento, con i tributari Lumiei, Degano, But e Chiarsò, sino al suo confluire nel Fella. Paese di montagne anche elevate, e di risicate pianure in fondovalle, è caratterizzato da una peculiarità che per secoli ne [ 228 ]condizionò la vita economica: «l’abbassamento dei limiti altimetrici di vegetazione» per cui a 500 metri di altitudine già non matura più la vite, e il frumento cresce stentato e tardivo.[1]

La Carnia, nel corso dell’Età Moderna, fu uno dei più vasti distretti montani della Repubblica di Venezia; sotto il profilo giuridico e fiscale si configurava come una Gastaldia, con sede a Tolmezzo; le unità sociali elementari erano le comunità di villaggio - le Comuni - distribuite lungo le vallate e raggruppate in Quartieri. In ogni comunità - e, in definitiva, nell’intera Gastaldia - vi era una preponderante presenza di territori sfruttati collettivamente a pascolo o bosco; vi si trovavano, tuttavia, anche piccolissime estensioni di terreni di ragione privata: le tavelle - brevi pianure in prossimità del villaggio, più vangativi che arativi, in cui si praticava un’agricoltura rudimentale (sorgo, megli, formentella, fava; mais, dal principio del ’600; patate, da fine ’700) - ed i prati circostanti in (talora anche forte) pendio.

I terreni a coltura (2720 ha, il 2,3% del totale) erano caratterizzati da elevata frammentazione e polverizzazione fondiaria, da un assetto proprietario che rimase statico ed immutabile nei secoli, e da uno spropositato prezzo delle particelle. Gli estesi prati e pascoli (52’573,5 ha, il 45,7% del territorio) erano base foraggera per un consistente allevamento di bestiame, col consueto e tradizionale sistema dell’alpeggio; i vasti boschi (32’605,5% ha, pari al 28,3% del totale) erano sottoposti a intenso e remunerativo (per chi seppe approfittarne) sfruttamento.[2]

Per tutta l’età moderna allevamento, silvicoltura ed emigrazione costituirono le principali risorse economiche delle vallate.

2. Nel dicembre 1678 scoppiò a Wien un’epidemia di peste. Nella Repubblica di Venezia scattò subito l’allerta, e vennero adottate le ormai consuete misure contumaciali: tra di esse un censimento di quanti emigravano dalla Carnia. Mutilo, impreciso, approssimato per difetto, viziato da arbitri e pregiudizi, quell’elenco - stilato tra il 25 settembre ed il 6 ottobre 1679 - costituisce il più importante documento sull’emigrazione carnica in Età Moderna.[3]

Risultarono assenti 1690 persone; 49 erano donne. La cifra, benché certamente sottostimata, appare imponente; acquista maggior rilievo a confronto con la popolazione della Carnia, che allora assommava, presuntivamente, a 21’000 abitanti. Mancava, dunque, più dell’8% della popolazione globale, e più del 25% dei maschi adulti al di sopra dei quindici anni.[4] Un confronto [ 229 ]Tav. 1: Censimento del 1672

Parrocchie «Huomini» Donne «Piccioli» Totale Emigranti 1679 % emigranti/ «huomini»


Conca di Tolmezzo

Pieve di Tolmezzo 348 404 399 1151 64 18,4%

Pieve di S. Floriano 145 199 184 528 55 37,9%

Pieve di Verzegnis 215 280 220 715 62 28,8%


Canal di Socchieve

Pieve di Invillino 169 248 222 639 31 18,3%

Cura di Lauco 476 593 375 1444 59 12,4%

Pieve di Enemonzo 585 743 612 1940 123 21,0%

Pieve di Socchieve 554 720 714 1988 98 17,7%

Pieve di Ampezzo 310 392 332 1034 42 13,5%

Cura di Sauris 145 168 147 460 25 17,2%


Canal di Gorto

Cura di Luincis 217 322 250 789 25 11,5%

Cura di Ovaro 207 306 197 710 16 7,7%

Cura di Comeglians 178 253 204 639 67 37,6%

Cura di S. Canciano 250 363 432 1045 15 6,0%

Cura di Monaio 177 208 218 603 57 32,2%

Cura di Rigolato 183 235 199 617 107 58,4%

Cura di Sopraponti 182 247 195 624 43 23,6%

Cura di Sappada 167 174 211 552 26 15,5%


Valle del But

Cura di Cercivento 206 250 190 646 109 57,2%

Cura di Incaroio 390 475 384 1249 108 27,7%


con un’indagine demografica di poco anteriore - un censimento del 1672 - consente proficui ragionamenti e peculiari (provvisorie) conclusioni.

Si notano divari anche molto consistenti tra villaggio e villaggio, tra parrocchia e parrocchia, tra vallata e vallata; diversità e divari analoghi si riscontrano anche nei villaggi della valle del But (ma il confronto si può istituire soltanto con dati del 1647 oppure del 1701, presupponendo un’immobilità demografica tutt’altro che confermata dalle fonti).[5] [ 230 ]3. Dalla Carnia partivano due distinte correnti migratorie (Fig. 1). La prima, e più consistente (che coinvolgeva il 29,7% dei maschi adulti) proveniva dai villaggi dell’alto Gorto e della Valcalda, dalla valle del But sopra Randice, dal Canal d’Incaroio; il flusso era indirizzato in modo preponderante a nord, verso gli stati della corona asburgica e le regioni della bassa Germania (Bayern, Franken, Schwaben, Oberpfalz, Hessen, Württemberg); era costituita pressocché completamente da mercanti.

Costoro venivano chiamati cramars: caricavano la cranici («un armamento che portiamo sopra le spalle, nel quale portiamo le merci [...]») con «delle specierìe, de fustagni, delle telle[...]», «specie et altre robbe, ciò è fustagni et ogne sorte dimercantie di teile», «delle speciarìe et dei pani di seta [,..]».[6] Erano dunque mercanti di tele:panni grisi di fattura casalinga;passamanerie, cimosse, cinture, fustagni; sete veneziane: prodotti per i quali - malgrado l’alto livello di autosufficienza tessile che si riscontra durante l'Età Moderna in ogni paese - esisteva la possibilità di smercio, in ciò coadiuvata dalla volubilità delle mode e dal mutare del gusto.

Ed erano mercanti di spezie: riempivano le scatole ovali, i cassettini della crassigna, gli scomparti dei bauli con i quills di cannella, con nose macis e noci moscate, con chiodi di garofano interi o pestati, con semi di coriandolo ed olio essenziale di coriandro, con pepe e zenzero ... Queste spezie erano importanti per l’alimentazione, soprattutto là dove era necessario conservare per lungo periodo grandi quantità di derrate (non è casuale che molti cramari si stabilissero in piazzeforti, o in città con guarnigione militare); ed erano usatissime come medicamenti, per i blandissimi effetti farmacologici, ma soprattutto per le virtù quasi magiche che loro si attribuivano.[7] I cramari s’inserivano dunque, e sia pure a livello minimo, in quella lunga e lucrosa catena di scambi commerciali che partiva dall’Asia meridionale e sudorientale, transitava - insidiata dalle Compagnie portoghesi e, più tardi, olandesi - ad Alessandria, a Tripoli, ad Aleppo ed aveva il suo principale centro di immagazzinamento smistamento e ricarico a Venezia, da cui le spezie venivano diffuse valicando le Alpi nella Germania meridionale e centrale, via mare a Marsiglia ed in Francia. Nonostante il commercio atlantico e la concorrenza del porto di Antwerpen, Venezia mantenne il predominio commerciale delle spezie in Germania meridionale per buona parte dell’Età Moderna.[8]

I cramari di Gorto e della Valcalda si distinguevano per commerciare, oltre alle spezie, medicinali (ad esempio, i vari tipi di triaca o mitri dato); o materie [ 231 ] [ 232 ]prime per fabbricarli (ad esempio, il cremor tartaro); o farmaci d’invenzione casalinga: dove per invenzione casalinga si deve intendere lo sfruttamento a scopo commerciale delle antiche conoscenze erboristiche, e l’elaborazione di rizette e rezipe tratte dai libri colti, di cui si è documentata la notevole diffusione.[9]

La seconda corrente migratoria, meno consistente (in media, il 16,3% dei maschi adulti), si avviava dalla valle del But sotto Randice, dalla conca tolmezzina, dalla vai del Lago, dalla vai Tagliarnento e dalla sua collaterale del Lumiei, e dal basso Gorto; aveva per mete pressocché universali la pianura friulana, l’Istria, il Trevigiano ed in genere il Veneto, nonché i due principati vescovili di Trento e di Brixen/Bressanone. Essi erano artigiani: in particolar modo praticavano mestieri legati alla filiera del tessile e dell’abbigliamento (tessitori, cardatori, sarti, cappellai). Nella tessitura i camici godevano di buona fama da lungo tempo: «la propria arte è tessere panni di lana, ma più di lino, nel che sono eccellenti e rari».[10]

Anche questa era una filiera mutila, che prevedeva altrove - nella vicina Kartnen/Carinzia o nella lontana Schlesien/Slesia - l’incetta di alcune materie prime, di cui in Carnia c’era scarsità - segnatamente il lino; la filatura a domicilio da parte delle donne rimaste al villaggio nel corso dei lunghi inverni; la fattura e lo smercio in emigrazione, là dove gli uomini erano pronti a «rubare con gli occhi» le innovazioni tecniche, gli accostamenti di fibre, i segreti delle tinture e ad annotarle sui loro libri di tacamenti, sui loro taccuini, sui loro campionari, in uno scambio e contaminazione continua di quanto vedevano nel mondo.[11]

Infine, vi erano villaggi con specializzazioni particolari, in cui abilità acquisite conservate e tramandate di padre in figlio, davano esiti notevoli in perizia apprezzamenti e guadagni. Così, all’estremo lembo del Canale di San Canciano, nella piccola villa riposta di Pesariis, si sviluppò dalla fine del Seicento l’arte di costruire orologi da torre, da sala, da tasca, lavorando ed innovando nella faria ingranaggi e meccaniche, esportandoli poi in Friuli, Istria, Bellunese.[12] Così, all’estremo lembo della vai di Gorto, nei villaggi di Forni, Avoltri, Sigilletto, Collina l’arte di fondere il bronzo portò alla costituzione di durature imprese per la fabbricazione di campane, cannoni, baldacchini a Wien,[13] Ljubljana,[14] Cheb/Eger.[15]

4. Il fenomeno, così com’è stato descritto, nelle sue linee generali durò per tutta l’Età Moderna. Questa continuità è testimoniata dai cronisti,[16] dai [ 233 ]Luogotenenti veneti di stanza a Udine,[17] ma soprattutto dalle inchieste che la Curia patriarcale o gli uffici della Serenissima promuovevano per i più svariati motivi.

Nel 1602, il timore di ben diverso contagio turbava il vicario patriarcale Agostino Bruno, in visita pastorale in questi luoghi: il timore del contagio «luterano». Perciò, nel minuziosissimo questionario che somministrò ai curati, vi era anche la domanda se vi fossero parrocchiani che sapessero leggere e scrivere, e che frequentassero i paesi tedeschi. Le risposte dei parroci confermarono quel che già sappiamo sulla ripartizione del territorio e delle mete di emigrazione. Così, il preposito di San Pietro, che reggeva la parrocchia di Zuglio - una zona di tessitori e di sarti, diretti a sud - rispose: «Io governo circa de 450 anime de comunione, computando quelli che al tempo de pasqua di Resurrettione si trovano esser che a Venetia che nel Friuli, de quali in parte non vogliono portar la fede della confessione et communione, et altri pratticano l’Alemagna [...].»[18]

Ben diverso il tenore delle risposte nell’alta valle del But, in Incaroio, in vai di Gorto. Ad esempio il parroco di San Giacomo di Rigolato: «Sono tre [che sanno leggere e scrivere] cioè Nicolò Di Corte, Marco Di Corte, Leonardo di Puschiassis et Valantino Guartana, et non usano se non libri vulgari italiani. Et pratticano nella mia cura mercanti tedeschi di Viena et di Sanspurch; et quanto alle ginti che pratticano in terra todescha della mia cura, ne farò notta et la portarò a Vostra Signoria avanti che si parta di Gorto.»[19]

E stilò una Lista o ver memoria di tutti li cramari [...] quali vano l’inverno per guadagnarsi il viver con varia sorti di marcanzia in Allemagna, nel paese di Esterai. Il documento è datato 9 novembre; gli emigranti erano partiti tutti, o quasi. Distinti per ville, risultarono assenti 71 persone. In quell’anno, nella parrocchia di Rigolato, si contavano 80 fuochi, circa 400 abitanti: quei 71 emigranti rappresentavano quasi il 18% del totale della popolazione, la metà degli uomini.[20]

Il perdurare del fenomeno, e la sua sostanziale immutabilità nel tempo, è testimoniata da una seconda serie di documenti. In molti villaggi della Carnia era diffusa la tradizione - che trova riscontro, a quanto se ne sa, soltanto in poche altre zone alpine[21] - di predisporre una cerimonia anche per coloro che morivano al di fuori del villaggio. Si trattava di un vero e proprio funerale, celebrato - per così dire - senza il protagonista principale.

Queste esequie vennero registrate nei registri parrocchiali al pari delle cerimonie funebri regolari, benché non sempre, non dapertutto e purtroppo [ 234 ]Tav. 2: I 417 emigranti della cura di San Giorgio di Gorto (Comeglians) di cui è stato registrato nei libri mortuorum il decesso in emigrazione

Luogo 1595-1634 1701-1818 Totale

In partibus Germaniae 75 26 101

Palatinato 3 7 10

Svevia - 13 13

Baviera 5 50 55

Austri superiore ed inferiore 3 27 30

Carinzia 3 6 9

Salisburghese 3 3 6

Tirolo - 1 1

Stiria 4 8 12

Ungheria - 98 98

Boemia 10 22 32

Moravia - 5 5

Transilvania - 6 6

Istria 10 13 23

Gorizia - 2 2

Croazia 1 1 2

Altri - 9 9

Non identificati 2 1 3

Totali 119 298 417


mai con continuità. I luoghi di morte indicano con buona approssimazione i luoghi d’emigrazione. I 417 emigranti della cura di San Giorgio di Gorto (Comeglians)[22] di cui è stato registrato nei libri mortuorum il decesso in emigrazione si distribuiscono com’è reso nella tavola 2. Emerge una continuità non casuale di mete d’approdo; cui si aggiunge, dopo il 1700, in seguito alla sua liberazione dal dominio ottomano, una meta nuova, l’Ungheria. Dunque, lo studio puntuale conferma la stabilità delle mete migratorie sul lungo periodo - salvo la tendenza ad approfittare dei nuovi mercati aperti dall’espansione asburgica ad oriente, fino in Transilvania. Inoltre, se anziché di indicazioni generiche («in partibus Germaniae», in «Esterni», in «Sbabia») disponiamo di nomi precisi di città, allora altre inferenze si rendono possibili (Fig. 2). Il ripetersi di registrazioni di decesso di personaggi in documentato rapporto di parentela tra di loro nella medesima città, fa sospettare l’esistenza di un [ 235 ] [ 236 ]negozio ormai stabile ed una divisione del lavoro congegnata in modo che uno dei fratelli faccia la spola tra casa e foresto, e l’altro badi al negozio durante l’assenza ed il rifornimento; l’ingresso della terza generazione, i cugini, nell’universo mercantile, fa gemmare nuovi e non distanti negozi, in un processo di espansione prudente ed oculato. I dati vengono confermati dallo studio delle proprietà negli archivi patri ed oltralpini.

5. Si trattava dunque di un’emigrazione stagionale invernale terziaria. Gli uomini partivano dai loro villaggi in autunno, prima che la neve chiudesse i valichi alpini; ritornavano a primavera inoltrata, quando le strade erano ridivenute praticabili. Ma non si trattava sempre di un ritorno annuale: i soggiorni avevano durata più o meno protratta a seconda dei mestieri e dove e quanto lontano dalla patria esercitati, e diversa in dipendenza dalle congiunture economiche nel corso dei tre secoli che qui si esaminano. Alcuni si trasferivano all’estero loco et foco, dopo aver vendute le sostanze e rinunciato ai diritti. Fare delle distinzioni molto precise tra tipologie migratorie - stagionale, temporanea, definitiva - che convivevano e si sovrapponevano non è agevole.

Un’ulteriore complicazione viene introdotta dalle distinzioni necessarie tra i Landmaterialisten («materialisti» di campagna) e gli Stadtmaterialisten («materialisti» di città); e, fra i primi, tra chi conduceva gli affari, rischiava ed intascava denari, ed aveva alle dipendenze uno o più lavoranti («patrone»), chi portava da sé la sua crassigna e bussava alle porte (VHausierer), ed il servitore che per un salario supponiamo misero portava le mercanzie altrui (il Träger); e, tra gli stanziali, fra chi mercantava al confine dell’illecito e chi era ormai aggregato alla città, teneva negozio aperto in piazza e si faceva chiamare Kaufmann o magari Handelsmann.[23]

Discorso analogo vale per i tessitori. Anche in Carnia, tuttavia - come in tante altre regioni alpine - l’emigrazione stagionale annuale era più consistente; quella temporanea, limitata; quella definitiva, presente in misura anche significativa durante il Seicento, conobbe lunghi periodi di stasi (in particolare nella prima metà del Settecento) ma riprese vigore a fine secolo, quando già si intravedevano i segni del disfacimento del sistema economico tradizionale.

D’estate, dunque, le montagne si ripopolavano e si rianimavano. D’estate si concludevano gli affari, si pagavano gli affitti, si stipulavano i livelli, si [ 237 ]

dettavano le procure, si redigevano i testamenti prima di intraprendere il nuovo viaggio: «[...] dovendo [...] ritornarsene nelle parti di Bavera al negotio e trafico delle sue merci, che colà tiene [...] alla cadente sua senil ettà d’anni 63 circa [...] non ha volsuto perciò partire da queste parti senza disponere con tutta rettitudine delle sue cose.»[24]

Anche i matrimoni si celebravano d’estate. La morfologia della curva evidenzia come una quota molto consistente dei matrimoni contratti in Valpesarina tra il 1676 ed il 1800 fosse celebrata tra luglio e settembre: il 50,1%. Così in ogni altra parrocchia della Carnia: le nozze si stipulavano - per ottimi motivi - nel periodo in cui gli uomini erano rientrati al villaggio (fig. 3).

Anche la stagionalità delle nascite era fortemente vincolata dall’emigrazione: esse, infatti, concentrate tra marzo e maggio, erano riferibili a concepimenti estivi, alla presenza estiva degli uomini in patria.

Nella cura di San Giacomo di Rigolato, dalle cui ville partivano gli arornati - i venditori di farmaci e di spezie - nei due secoli tra il 1581 ed il 1800, il 54,7% dei concepimenti avvenne tra giugno e settembre. La sosta estiva era molto breve per la maggior parte dei cramari: ne è spia il fatto che il 32,7% [ 238 ]

delle nascite fosse concentrato nei mesi di marzo ed aprile (Fig. 4). Egualmente notevole, benché meno clamoroso, il dato della parrocchia di San Daniele di Paluzza - che includeva villaggi di mereiai di spezie e di stoffe - negli anni tra il 1612 ed il 1800: da marzo a giugno il 48,0% delle nascite (Fig. 5). Infine un terzo esempio: la pieve di Santa Maria Maddalena di Invillino, abitata in prevalenza da tessitori, dal 1567 al 1800. L’andamento della curva è più dolce, ma ancora una volta troviamo una prevalenza significativa di nascite - il 40,8% - tra marzo e giugno (Fig. 6).[25]

Naturalmente vi furono delle variazioni, quantitative e qualitative, nel corso di questi tre secoli. Ad esempio, l’emigrazione dei tessitori rallentò quando -ta partire dal 1730 circa - proprio e soltanto nei villaggi che abbiamo definito «dei tessitori» aveva fatto incetta di artigiani per il suo fortunato esperimento di Verlagssystem Jacopo Linussio; il Ristretto del numero dei tesseri, e quantità di famiglie, che si impiegono nel negotio Linussio anno 1741 disegna una geografia e dei confini singolarmente e perfettamente coincidenti con la geografia ed i confini qui delineati: 426 mastri e 677 telai, che sarebbero divenuti 1100 nel 1770.[26]

Al contrario, in vai di Gorto vi fu un singolare incremento nel cinquanten[ 239 ] [ 240 ]nio tra il 1700 ed il 1750, cui fece riscontro - tra il 1750 ed il 1800 - un brusco decremento. Esso è spiegabile in parte con l’aumento dell’emigrazione definitiva, ma soprattutto con la contrazione dell’emigrazione stagionale.

6. Per acquistare le droghe, i «materiali», i farmaci da portare a vendere in Germania era necessario disporre di danaro; danaro era necessario anche per acquistare il lino e la canapa - che soltanto in minima parte, insufficiente anche per l’autoconsumo, venivano prodotti in loco - per esercitare in emigrazione la tessitura ed i mestieri collegati. Quel danaro veniva ottenuto mediante il credito: il numero di contratti creditizi è davvero imponente nei secoli che qui si studiano. Soltanto nei «libri delle notifiche» - redatti continuamente dal 1736 al 1807 - sono registrati in Carnia più di 70’000 livelli, convizioni, affitti. Con assoluta preponderanza, si tratta di crediti commerciali.

Il livello era, in buona sostanza, un prestito ad interesse annuo, che veniva erogato da chiese o confraternite (ad un interesse del 5%) oppure da privati (ad un interesse medio del 7%). Esso aveva termine quando la somma prestata fosse stata interamente restituita (francazione). L’irregolarità nel pagamento dell’interesse, o l’impossibilità di restituzione del capitale, comportavano l’accaparramento del bene ipotecato da parte del creditore (datio in solutum).

La convizione era un prestito in generi mercantili - un anticipo in droghe, medicinali, stoffe o altro - da restituire in moneta ed a rate (annuali o biennali) con un interesse quasi mai specificato, ma che si può ritenere molto elevato, ed una durata relativamente breve.

I cramari garantivano livelli e convizioni con la casa, i campi, i prati.[27] Perciò era necessario che ciascuno possedesse terra: non principalmente per ricavarne sostentamento, ma principalmente per darla in garanzia ai creditori.

Nei testamenti si prescriveva esplicitamente che tutti i figli maschi dovessero essere eredi «a ugual poritione»; e che le porzioni dovessero essere «di ugual valore» e perciò poste «parte in piano, parte in monte». Da cui divisioni ereditarie patafisiche; e ad ogni divisione, un frazionamento della proprietà fino alla polverizzazione,[28] che rispondeva certo all’esigenza di commisurare le terre così distribuite alla forza-lavoro - oltre che ad esigenze di equità - ma che sottintendeva altro.

Quella terra così improduttiva che «non potriano quelli carni populi vivere col prodotto della terra più di tre mesi all’anno» aveva prezzi altissimi: i [ 241 ]catasticatori di inizio Ottocento valutarono che il prezzo reale dei terreni era superiore di 10-12 volte il prezzo giusto; ed il costo per unità di misura di magro terreno di montagna era da quatro a sei volte superiore a quello di fertile terreno di pianura.

Ad una domanda anche sostenuta corrispondeva un’offerta inesistente. Nessuno era disposto a disfarsene. Serviva infatti a garantirsi l’accesso al credito. Controprova è che tutti i terreni erano ipotecati - e sovente con più gravami ipotecari. Controprova è che furono molto rari i tentativi di ingrandimento fondiario: i prestatori non avevano interesse ad accaparrare la terra, che dava remunerazioni molto inferiori all’attività creditizia. Infine, al tempo della vendita dei comunali, a fine Seicento, i pochi camici danarosi investirono sì in feudi ed in campagna, ma nella pianura friulana e veneta, non in Carnia.

7. Ma chi sfruttava i boschi, chi custodiva gli armenti, se la grande maggioranza degli uomini era assente per buona parte dell’anno? Ad esempio, chi restava a curare il patrimonio zootecnico delle cinque comunità di San Giorgio di Gorto, che consisteva, nel 1780, in 526 bovini e 341 ovini (e nel 1808 a 476 buoi e vacche, 467 tra castrati pecore e capre, e 149 porci); chi era adibito al lavoro dei boschi, che copriva una superficie di 500 ha circa, se la percentuale di maschi in emigrazione in quella parrocchia superava il 60% ?

Accanto a quella consistente emigrazione vi era un’altrettanto consistente immigrazione. Nel corso del ’600 e del ’700 immigrarono nella parrocchia almeno 378 persone. Provenivano dal Canale d’Asio, dal Canal del Ferro, dal Comelico e Cadore, dal Friuli pedemontano, dalle vicine terre di Carniola, Carinzia, Tirolo: cioè dalle montagne contermini.

Tutti i comeleàni ed i cadorini, tutti i montanari del Canal del Ferro erano addetti all’esbosco, alla prima lavorazione, alla fluitazione del legno, alla carpenteria; la loro competenza tecnica e abilità manuale (e, per converso, l’incompetenza ed inabilità degli originari) venne messa in evidenza durante la costruzione della strada di San Candido (1761-1763): «Oltre queste fatiche, fu loro imposto il taglio de’ legnami per la costruzione dei ponti, e la condotta di quelli per acqua: alla quale funzione non essendo capaci li detti villici, fu stabilito accordo cogli huomini del Canal del Ferro, soliti impiegarsi in tali lavori, alli quali fu pagata nel primo anno la summa di Lire 2682, e nel secondo anno Lire 1350, che ripartiti tra quella misera popolazione dovè spremere dalle sue sostanze anche soldo effettivo.»[29] [ 242 ]Gli immigrati di Asio erano in grande maggioranza pastori. Essi venivano assunti a salario dai comuni o dai «particolari» della Carnia per custodire o monticare le loro mandrie, durante l’estate in malga, durante le stagioni intermedie e l’inverno al villaggio; essi curavano la trasformazione del latte, assistevano allo sgravio della vacche, guidavano le transumanze e la vendita dei vitelli, praticavano la castrazione e la macellazione dei porci e la tosatura delle pecore.

È pertanto possibile delineare nella Carnia dal 1500 al 1700 una divisione del lavoro di questo genere:

a. i maschi camici adulti (gli «originari») praticavano in emigrazione la mercatura ed alcuni lavori di artigianato, generalmente legati alla filiera del tessile: si trattava in genere di un’emigrazione «ricca»; b. i maschi foresti immigravano per venir prevalentemente utilizzati nei lavori del bosco e nell’allevamento del bestiame: si trattava di un’immigrazione «povera»;

c. le donne erano dedicate ai gravosi lavori della casa dell’orto dei fieni della filatura.[30]

8. La mercatura, e l’emigrazione in genere, presupponevano una pratica assidua della scrittura e del conto: i rapporti con famigliari e procuratori, con grossisti e creditori erano di solito rapporti epistolari, nel doppio registro italiano e tedesco, nella doppia corsiva italica e gotica. Era necessaria perciò un’elevata scolarizzazione: e in effetti ogni villaggio disponeva di un cappellano-maestro o di una vera e propria scuola e - dato rimarcabile - «per li putti et le putte». Molte di queste scuole erano istituite con lasciti di emigranti: un esempio molto significativo riguarda Monaio e Zovello.

Nel 1726, il mercante di Dillingen ma originario di Ravascletto, Leonardo De Infanti, lasciò in testamento 4000 fiorini alle due comunità per mantenere un precettore al fine di «[...] ammaestrare la Gioventù di detto loco nella disciplina del timor di Dio, come anco nella Dottrina e Lettere necessarie, ed altre maggior virtù [...] come pure nelle prime necessarie scienze con buona disciplina, e come più nel modo e forma della scrittura [...]».

Lasciti seguirono nel 1738, da parte dei fratelli GioBatta e Filippo Plazzaris, mercanti in Schwaben/Svevia; nel 1804 da Maddalena Crignis, vedova di un mercante di Augsburg; ed ancora nel 1846 da una sorella di costei, MariaAnna Crignis Provino.[31] [ 243 ]Alla scuola contribuirono altri paesani con livelli, lavoro volontario, offerte. E così in ogni altro villaggio. A testimonianza di quell’elevata scolarizzazione, gli archivi pubblici e privati conservano migliaia e migliaia di lettere; un numero minore ma consistente di libri mastri e di brogliacci; carte topografiche, diari, promemoria. È un esempio di investimento nel «pubblico»; non è l’unico.

La divisione tra «zona dei cramari» e «zona dei tessitori» si verifica puntualmente anche per quanto riguarda la dotazione in suppellettili delle chiese: così nella prima si rinvengono ancor oggi ostensori, calici, paci di fattura augustana, dipinti e sculture lignee bavaresi (anche molto pregevoli), portali armadi pulpiti di artigiani locali ma commissionati da cramari, pagati in fiorini, e modellati sui canoni del rococò asburgico; nella seconda, argenti dipinti motivi e moduli architettonici veneziani.

Vi erano, naturalmente, investimenti privati: nei prestiti ad interesse; in obbligazioni bancarie nei Monti di Pietà; nella fondazione di nuovi negozi stabili; nell’istruzione superiore e nella carriera ecclesiastica, notarile, giudiziaria dei figli cadetti;[32] e nelle bellissime case carniche ad archi, con corte focolare esterno e tetto in coppi, che trasformarono i villaggi in piccoli agglomerati «urbani» di case civili di montagna, e manifestarono per due secoli «un tratto di originalità e un momento di autostima».[33]

9. Con la fine del ’700 ed il gran ribaltone napoleonico, l’emigrazione dei commercianti di droghe terminò, con relativa celerità. Le morfologie delle curve di natalità ne registrano puntualmente l’esaurimento e la fine. Le medie dei battesimi della parrochia di San Giorgio di Gorto nei venti anni dal 1701 al 1720 sono sensibilmente diverse da quelle del ventennio 1781-1800: questa seconda curva appare piatta ed omogenea. L’emigrazione dei cramari dava gli ultimi sussulti (Fig. 7).

Diverso fu il destino dei tessitori. Si veda il grafico relativo alla parrocchia di Enemonzo, dove le stagionalità del primo e ultimo ventennio del Settecento sono sovrapponibili: l’emigrazione dei tesseri cargnelli era ancora molto vitale alila fine del XVIII secolo, e lo sarebbe rimasta per qualche tempo ancora (Fig. 8).

Seguì un lungo periodo di stasi; un rimescolio di competenze e di culture di mestiere; si patì realmente quella miseria che altre volte era stata soltanto esibita.

Poi, una nuova domanda di manodopera fu avanzata dai paesi dell’Europa [ 244 ] [ 245 ]centrale e orientale, in particolare legata all’edilizia ed alle opere pubbliche: cominciò quella che nella memoria è ancor viva come la «grande» emigrazione -tancora prevalentemente maschile, ma estiva e proletaria - che terminò nel 1915, quando prese avvio il gran macello della guerra «mondiale».


Note

1 AA. VV., La Carnia. Quaderno di documenti per la mostra internazionale d’arte contemporanea sulla pianificazione urbanistica e architettonica del territorio alpino. Udine 1975.

2 Furio Bianco, Comunità di Carnia. Udine 1985.

3 II documento è ora integralmente pubblicato in: Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin (ed.), Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in Età Moderna. Udine 1997.

4 Claudio Puppini, «Anime e aggravi]'TerraeTulmetij et Contrada. Contributo a una ricerca demografica sulla Carnia del XVII secolo», in: Sot la Nape, XLVII, 1995, 4, pp. 17-25.

5 Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, «Le stagioni dei migranti. La demografia delle valli carniche nei secoli XVII-XVIII», in: Cramars, cit., pp. 99-131.

6 Giorgio Ferigo, Pier Mario Flora, «I debiti e i peccati», in: In Alto, LXXVII, 1995, pp. 19-33.

7 Giovanni Villavecchia, Giovanni Eigenmann (ed), Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata, Milano 1973-1977, sub vocibus: R. Tannahill, Storia del cibo, Milano 1987.

8 Karl Glamann, «La trasformazione del settore commerciale», in: Storia economica Cambridge. V. Economia e società in Europa nell’età moderna. Torino 1978, pp. 230 ss.: F. C. Lane, I mercanti di Venezia. Torino 1982.

9 Domenico Molfetta, Erboristeria e medicina popolare in Carnia. Udine 1984.

10 Amelio Tagliaferri (ed.). Relazioni dei Rettori veneti di Terraferma. I. La Patria del Friuli (Luogotenenza di Udine). Milano 1973.

11 GianPaolo Gri, «Cultura di mestiere e trasmissione del sapere tecnico», in: Gina Morandini, Carmen Romeo (ed.). Tessitori di Carnia. Il sapere tecnico del Libro di Tacamenti di Antonio Condotto (XVIII secolo). Gorizia 1991.

12 E. Puntin Gognan, «L’orologio», e Giuseppe Francescato, «Il linguaggio tecnico degli orologiai di Pesariis», in: Andreina Ciceri, Piera Rizzolatti, Vita tradizionale in Val Pesarina, Udine 1990.

13 Tullio Ceconi, «Fondidùors di cjampanos da For e da Sighiet tal Impero Austroungaric», in: Sot la Nape XXXVII, 1985, 3, pp. 61-64.

14 Matjia Zargi, «Kovina», in: Mateja Kos, Matija Zargi (ed.), Gradovi minevajo, fabrike nastajajo. Industrijsko oblikovanje v 19. stoletju na Slovenskem. Ljubljana 1991.

15 W. D. Hamperl, «Die Egerer Glockengiesshiltte und ihre Meister (1500-1945)», in: L. Schreiner, Kunst in Eger. Milnchen 1992.

16 Jacopo Valvasone di Maniago, Descrizione della Carnia [1565], Udine 1866: Girolamo di Porcia, Descrizione della Patria del Friuli [1567], Udine 1897: Fabio Quintiliano Ermacora, Sulle antichità della Cargna [1567], Udine 1863: Enrico Palladio, Rerum Forojuliensium, Udine 1659: Nicolò Grassi, Notize storiche della provincia della Carnia..., Udine 1782.

17 Amelio Tagliaferri (ed.). Relazioni dei Rettori veneti...', cit.

18 Archivio Arcivescovile di Udine, Visite pastorali. Documenti raggruppati per le singole cure. voi. 12, f. 118, c 3 r. [ 246 ]19 Ibid. Id, c. 34 v.

20 Archivio di Stato di Venezia, Provveditori sopra i Beni Comunali, b. 471.

21 Ad esempio nel cantone di Claris, nella Svizzera orientale. Cfr A.-L. Head, «Quelques remarques sur l’émigration des régions préalpines. Le cas glaronnais - une première approche», in: Revue Suisse d’Histoire, XXIX, 1979, pp. 181-193.

22 Giorgio Ferigo, «Ancora di cifre e di anime», in: Manlio Michelutti (ed.), In Guart. Anime e contrade della Pieve di Gorto. Udine 1994, pp. 147-172.

23 Herbert Klein, «I materialisti della Carnia nel salisburghese», in: Ce Fastu?. XXX, 1954, 1-6, pp. 70-88: Id., «Un friulano amico del giovane Mozart», in: Ibid., XXXIX, 1963,1-6, pp. 72-79; Frantisek Leskoschek, Der steirische Kaufmann. Graz 1963; Edith Munzer, Alte grazer Kaufinannsfamilien. Graz 1986.

24 Archivio di Stato di Udine, Archivio Notarile Antico, b. 1888 (notaio Giacomo Tavosco: si tratta dell’incipit del testamento di Daniele degli Antoni di Runchia, datato 28. 10. 1723).

25 Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, «Le stagioni dei migranti ...», cit.

26 Gilberto Ganzer, «L’arte tessile e la manifattura Linussio», in: Gilberto Ganzer (ed.). Tesori d’arte in Carnia. Paramenti sacri e tradizione tessile. Maniago-Pordenone 1978; Luisa Mainardis, «La Fabbrica di tellarie della Ditta Linussio», in: Almanacco Culturale della Carnia. I (recte: II), 1986, pp. 5-36; Luciana Morassi, «L’impresa Linussio tra maestranze in fuga e concorrenza», in: Metodi e Ricerche. X (n. s.), 1991, 1.

27 Alessio Fornasin, «Emigrazione e credito commerciale in Carnia tra ’600 e ’700», in: In Guart.... cit., pp. 199-206; Id., «La vita economica a Sauris tra Sei e Settecento», in: Ce Fastu?. LXX, 1994,1, pp. 15-39; Id., «Terra, credito ed emigrazione commerciale in Carnia durante l’età moderna», in: Cramars .... cit., pp. 152-180.

28 Luigi De Corte, «La proprietà fondiaria in un villaggio del Canal di Gorto tra ’700 e ’800. Continuità e permanenze», in: In Guart.... cit. pp. 173-178.

29 Erminio Polo, «Le strade percorse da mercanti, contrabbandieri, mendicanti e tesseri nel ’700 in Carnia», in: AA. W, La Carnia in Età moderna. Oltre Linussio. Udine, 1992, pp. 71-97.

30 Giorgio Ferigo, «Da estate a estate. Gli immigrati nei villaggi degli emigranti», in: Cramars .... cit., pp. 133-152.

31 Patrizia Casanova, «Ritorni. Apporti culturali dai paesi tedeschi in alta Carnia tra Sei e Settecento», in: Cramars .... cit., pp. 399-423.

32 Maria Cristina Cescutti, «Effetti di seconda e terza generazione: letterati figli di emigranti», in: Cramars .... cit., pp. 371-386.

33 Francesco Micelli, «La <casa carnica> e i <cramari>», in: Cramars .... cit., pp. 361-369.

  1. 1 AA. VV., La Carnia. Quaderno di documenti per la mostra internazionale d’arte contemporanea sulla pianificazione urbanistica e architettonica del territorio alpino. Udine 1975.
  2. 2 Furio Bianco, Comunità di Carnia. Udine 1985.
  3. 3 II documento è ora integralmente pubblicato in: Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin (ed.), Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in Età Moderna. Udine 1997.
  4. 4 Claudio Puppini, «Anime e aggravi]'TerraeTulmetij et Contrada. Contributo a una ricerca demografica sulla Carnia del XVII secolo», in: Sot la Nape, XLVII, 1995, 4, pp. 17-25.
  5. 5 Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, «Le stagioni dei migranti. La demografia delle valli carniche nei secoli XVII-XVIII», in: Cramars, cit., pp. 99-131.
  6. 6 Giorgio Ferigo, Pier Mario Flora, «I debiti e i peccati», in: In Alto, LXXVII, 1995, pp. 19-33.
  7. 7 Giovanni Villavecchia, Giovanni Eigenmann (ed), Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata, Milano 1973-1977, sub vocibus: R. Tannahill, Storia del cibo, Milano 1987.
  8. 8 Karl Glamann, «La trasformazione del settore commerciale», in: Storia economica Cambridge. V. Economia e società in Europa nell’età moderna. Torino 1978, pp. 230 ss.: F. C. Lane, I mercanti di Venezia. Torino 1982.
  9. 9 Domenico Molfetta, Erboristeria e medicina popolare in Carnia. Udine 1984.
  10. 10 Amelio Tagliaferri (ed.). Relazioni dei Rettori veneti di Terraferma. I. La Patria del Friuli (Luogotenenza di Udine). Milano 1973.
  11. 11 GianPaolo Gri, «Cultura di mestiere e trasmissione del sapere tecnico», in: Gina Morandini, Carmen Romeo (ed.). Tessitori di Carnia. Il sapere tecnico del Libro di Tacamenti di Antonio Condotto (XVIII secolo). Gorizia 1991.
  12. 12 E. Puntin Gognan, «L’orologio», e Giuseppe Francescato, «Il linguaggio tecnico degli orologiai di Pesariis», in: Andreina Ciceri, Piera Rizzolatti, Vita tradizionale in Val Pesarina, Udine 1990.
  13. 13 Tullio Ceconi, «Fondidùors di cjampanos da For e da Sighiet tal Impero Austroungaric», in: Sot la Nape XXXVII, 1985, 3, pp. 61-64.
  14. 14 Matjia Zargi, «Kovina», in: Mateja Kos, Matija Zargi (ed.), Gradovi minevajo, fabrike nastajajo. Industrijsko oblikovanje v 19. stoletju na Slovenskem. Ljubljana 1991.
  15. 15 W. D. Hamperl, «Die Egerer Glockengiesshiltte und ihre Meister (1500-1945)», in: L. Schreiner, Kunst in Eger. Milnchen 1992.
  16. 16 Jacopo Valvasone di Maniago, Descrizione della Carnia [1565], Udine 1866: Girolamo di Porcia, Descrizione della Patria del Friuli [1567], Udine 1897: Fabio Quintiliano Ermacora, Sulle antichità della Cargna [1567], Udine 1863: Enrico Palladio, Rerum Forojuliensium, Udine 1659: Nicolò Grassi, Notize storiche della provincia della Carnia..., Udine 1782.
  17. 17 Amelio Tagliaferri (ed.). Relazioni dei Rettori veneti...', cit.
  18. 18 Archivio Arcivescovile di Udine, Visite pastorali. Documenti raggruppati per le singole cure. voi. 12, f. 118, c 3 r.
  19. 19 Ibid. Id, c. 34 v.
  20. 20 Archivio di Stato di Venezia, Provveditori sopra i Beni Comunali, b. 471.
  21. 21 Ad esempio nel cantone di Claris, nella Svizzera orientale. Cfr A.-L. Head, «Quelques remarques sur l’émigration des régions préalpines. Le cas glaronnais - une première approche», in: Revue Suisse d’Histoire, XXIX, 1979, pp. 181-193.
  22. 22 Giorgio Ferigo, «Ancora di cifre e di anime», in: Manlio Michelutti (ed.), In Guart. Anime e contrade della Pieve di Gorto. Udine 1994, pp. 147-172.
  23. 23 Herbert Klein, «I materialisti della Carnia nel salisburghese», in: Ce Fastu?. XXX, 1954, 1-6, pp. 70-88: Id., «Un friulano amico del giovane Mozart», in: Ibid., XXXIX, 1963,1-6, pp. 72-79; Frantisek Leskoschek, Der steirische Kaufmann. Graz 1963; Edith Munzer, Alte grazer Kaufinannsfamilien. Graz 1986.
  24. 24 Archivio di Stato di Udine, Archivio Notarile Antico, b. 1888 (notaio Giacomo Tavosco: si tratta dell’incipit del testamento di Daniele degli Antoni di Runchia, datato 28. 10. 1723).
  25. 25 Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, «Le stagioni dei migranti ...», cit.
  26. 26 Gilberto Ganzer, «L’arte tessile e la manifattura Linussio», in: Gilberto Ganzer (ed.). Tesori d’arte in Carnia. Paramenti sacri e tradizione tessile. Maniago-Pordenone 1978; Luisa Mainardis, «La Fabbrica di tellarie della Ditta Linussio», in: Almanacco Culturale della Carnia. I (recte: II), 1986, pp. 5-36; Luciana Morassi, «L’impresa Linussio tra maestranze in fuga e concorrenza», in: Metodi e Ricerche. X (n. s.), 1991, 1.
  27. 27 Alessio Fornasin, «Emigrazione e credito commerciale in Carnia tra ’600 e ’700», in: In Guart.... cit., pp. 199-206; Id., «La vita economica a Sauris tra Sei e Settecento», in: Ce Fastu?. LXX, 1994,1, pp. 15-39; Id., «Terra, credito ed emigrazione commerciale in Carnia durante l’età moderna», in: Cramars .... cit., pp. 152-180.
  28. 28 Luigi De Corte, «La proprietà fondiaria in un villaggio del Canal di Gorto tra ’700 e ’800. Continuità e permanenze», in: In Guart.... cit. pp. 173-178.
  29. 29 Erminio Polo, «Le strade percorse da mercanti, contrabbandieri, mendicanti e tesseri nel ’700 in Carnia», in: AA. W, La Carnia in Età moderna. Oltre Linussio. Udine, 1992, pp. 71-97.
  30. 30 Giorgio Ferigo, «Da estate a estate. Gli immigrati nei villaggi degli emigranti», in: Cramars .... cit., pp. 133-152.
  31. 31 Patrizia Casanova, «Ritorni. Apporti culturali dai paesi tedeschi in alta Carnia tra Sei e Settecento», in: Cramars .... cit., pp. 399-423.
  32. 32 Maria Cristina Cescutti, «Effetti di seconda e terza generazione: letterati figli di emigranti», in: Cramars .... cit., pp. 371-386.
  33. 33 Francesco Micelli, «La <casa carnica> e i <cramari>», in: Cramars .... cit., pp. 361-369.