quanto c’era allora di più riprovevole per la donna, che partiva spesso sola per raggiungere un ambiente di lavoro promiscuo dove nessuno avrebbe tutelato il suo onore ed in cui si presumeva che avrebbe dimenticato cosa significava essere donna - o più precisamente casalinga -, poiché il lavoro di fabbrica l’avrebbe snaturata. Pertanto, è facilmente intuibile la funzionale strumenta- lizzazione delle «patologie sociali» per ricollocare le emigrate di ritorno nel posto che la natura e la società aveva loro destinato. E l’Ottocento positivista ricercava i fondamenti scientifico-biologici per dimostrare la convinzione culturalmente diffusa dell’inferiorità femminile, elaborava teorie ed esperi- menti pseudo-scientifici per giustificare l’immagine di un essere femminile fragile, incompleto, irrazionale, assecondando l’archetipo più conveniente per quella società.
Nel secolo segnato dall’avvento dell’industria si incrociavano le patologie vecchie e nuove della miseria e del progresso, già Engels indicava il nesso che esisteva tra malattie e sviluppo nella sua inchiesta sulle Conditions of the Working Class in England.[8] Le pessime condizioni di salute dei lavoratori originavano dal pauperismo endemico del proletariato, dove lo stesso lavoro poteva «divenire elemento di crisi di una economia dell’organismo precaria»,[9] aggravata da concause ambientali, abitative e lavorative: nella donna tutto questo era evidenziato da una quotidianità fatta di superlavoro e di sottoalimentazione più accentuata che nel maschio, ulteriormente aggravata nelle asperità dell’emigrazione, situazioni tutte che nel loro insieme predisponevano ad una maggiore morbilità e letalità il sesso debole.[10] Ma inquietava particolarmente i benpensanti la degenerazione delle lavoratrici dovuta alle malattie acquisite in emigrazione, perché il morale e il sociale in esse si affiancavano al biologico in una svalorizzazione totale della donna, inoltre la stessa società che la circondava rischiava il contagio e quindi la sua stessa svalorizzazione.[11] In questo contesto la strumentalizzazione della colpa diveniva un sistema di governo.
Nella strumentalizzazione delle «patologie sociali» delle emigrate di ritorno si evidenziava, non ultimo, l’ossessione della società europea di fine Ottocento per la degenerazione fisica e morale, individuale e collettiva; il legame tra malattia fisica e morale - ovvero la malattia come conseguenza di una colpa e quindi come castigo - non era certo nuova, lo erano però le malattie allora più emblematiche di questo sentimento di insicurezza: sifilide e tisi. La degenerazione organica implicita in tali patologie collegava idealmente la malattia individuale (colpa) alla «piaga sociale», l’ambito morale e l’ambito biologico. Erano patologie «private» che uccidevano lentamente senza segni molto evidenti, metafore di