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livelli.[18] Insomma, dove la precedente letteratura aveva insistito sullo squilibrio tra popolazione e risorse e sull’ineluttabilità dell’emigrazione, la ricerca più recente - condotta non solo da storici e demografi, ma anche da geografi e antropologi - insisteva sulla capacità delle società alpine di «calibrare finemente» la popolazione alle risorse.[19] La nuzialità soppiantava dunque l’emigrazione nel ruolo di principale meccanismo regolatore. Da componente strutturale e inevitabile della demografia e dell’economia alpina, l’emigrazione diveniva fenomeno in qualche maniera residuale e opzionale, come dimostravano i casi di comunità in cui si erano riscontrati livelli assai modesti di emigrazione sia permanente sia temporanea o stagionale. E questa opzionalità - conviene notarlo - trasformava l’emigrazione da fenomeno passivo, ineluttabile, in un fatto di scelta, dunque in fenomeno attivo.

Alla fine degli anni ’80 era stato possibile offrire una prima sintesi dei risultati di un decennio di studi particolarmente fecondo per la demografia storica delle Alpi.[20] A quasi dieci anni ormai di distanza, mi sembra si possa dire che nel complesso le principali conclusioni a cui erano arrivati quegli studi sono state confermate negli anni ’90.[21] Può anzi essere interessante segnalare che - soprattutto per quel che concerne la variabile in ultima analisi forse più decisiva, vale a dire la mortalità infantile - l’esempio offerto dalla demografia storica delle Alpi ha condotto studiosi che si occupano di altre regioni europee a prestare maggiore attenzione alle influenze ambientali e a pervenire a conclusioni che corroborano quelle raggiunte nelle Alpi, come mostrano i due importanti libri di David Reher sulla Spagna e di Mary Dobson sull’Inghilterra.[22]

Permanendo valido il quadro generale della demografia alpina di antico regime che è stato qui delineato, si mantengono valide anche le sue implicazioni per lo studio dell’emigrazione. Esistono tuttavia dei rischi che occorre evitare. Un primo rischio è quello di sostituire alla vecchia una nuova ortodossia, certo più solidamente fondata su dati empirici ma non meno incline a generalizzazioni monolitiche e astoriche che tendono a ignorare variazioni spaziali e temporali anche di grande importanza.[23] Un secondo rischio è quello di essere eccessivamente affascinati dalle sirene del modello omeostatico. Come ha giustamente notato Luigi Lorenzetti in un suo recente saggio, mentre le caratteristiche omeostatiche della nuzialità sono state più volte dimostrate nel caso di sistemi chiusi, esse suscitano numerose questioni nel caso di sistemi aperti, in quanto il modello omeostatico «tende a misconoscere l’esistenza di flussi migratori e le loro eventuali implicazioni

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