Ore di città/56

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Ore di città/56  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

Tempo di Quaresima[edit]

C'è un santo nelle prime settimane dei quaranta giorni che non tutti i calendari portano e che si chiama San Giovanni di Dio; i milanesi l'hanno battezzato San Giovann muda-vizi appunto perché in quaresima bisognerebbe cambiar vita e dai divertimenti passare alla penitenza.

A buon conto però i milanesi parlano soltanto di mutar vizi e non di lasciarli. Comunque e in seguito verrà la Pasqua che sarà alta o bassa secondo le lune. C'erano prima della guerra degli ereticoni che scherzavano su quella solennità mobile e dicevano quanto al farla e al non farla: «Se è alta ci passiamo sotto, se è bassa la scavalchiamo», e intanto il loro polizzino pasquale restava nel bacile d'argento del preposto.

Non so perché ma l'idea della quaresima si lega nei miei ricordi all'Istituto Bognatti-Boselli, ai suoi professori, ai suoi alunni, alle sue classi con Delio Tessa dentro, studente della seconda liceale. Forse è per quel sentore di sacrestia laica che c'era nella casa di via Bossi e perché su sette insegnanti tre erano preti, e i secolari erano più preti dei preti.

Di italiano c'era il prof. Attilio De Marchi, fratello del grande Emilio, lungo, col collo un po' torto e le braccia penzoloni giù per i fianchi; nella destra teneva sempre un libro e quel libro pareva gli pesasse perché la spalla cadeva più dell'altra.

Il prof. Quintavalle, di matematica (el cunta ball, come lo chiamavamo noi), non pronunciava le doppie, e pensate che la sua frase più solita era: «Se non studieranno perderanno l'anno...» Teneva le sue lezioni scritte in un notes nero, gonfio di foglietti e di cartine assorbenti. Lo apriva e spiegava leggendo. Noi capivamo tutto.

Il prof. Mariani, di latino e di greco, invece di togliere una lettera alle doppie, aggiungeva un'a, una parola sì e una no. Diceva: « E-a... che-a... nevvero-a...» Ciro (il Ciro della Anabasi) diventava per lui «Ciruss-a...», con aperto riferimento alla scirossa che in milanese sono i pavimenti di mattone. Povero e caro uomo! Era un idealista! Proponeva e sosteneva che le guerre dovevano essere abolite senz'altro o quantomeno limitate a una singolare tenzone fra un guerriero di un Paese e uno dell'altro. Un mercoledì grasso il preside dell'Istituto mi chiamò in direzione per un meremor e... (mi ricordo ancora le parole): «So che in questi giorni poco si conclude - mi disse - ma con lunedì...»

Invece lunedì c'era ancora la Fiera di porta Genova alla quale tenevo tanto, a parte i fischi laceranti delle giostre che mi davano sui nervi.

La Fiera andava sempre in là perlomeno una settimana dopo il carnevale. Pioveva spesso e mia madre li compativa: «...qui pover gent della Fera», e guardava il cielo grigio e i tetti lustri di via del Fieno. Il Municipio li indennizzava come poteva regalando loro una settimana in più, e d'acqua anche quella, magari.

Tutte le epoche hanno i loro divertimenti e la quaresima ha i suoi; alle prediche non ci pensate? per conto mio mi è sempre piaciuto stare in chiesa. Ci stavo senza pregare e un senso di benessere mi invadeva tutto. Il mondo della scuola, dei compiti, dei professori e ripetitori era rimasto al di fuori e io ero lì, difeso. Chi avrebbe potuto disturbarmi? Io ero in chiesa! Contemplavo la stella dei Re Magi a Natale, il gran cero che ardeva a destra dell'altare a Pasqua, il quadro della Madonna illuminato a luce elettrica a maggio e mi sentivo tranquillo e senza peccati.

In Sant'Alessandro padre Gazzola, il preposto, sceglieva lui i suoi quaresimalisti fra i migliori, stavo per dire, della piazza. Non li perdeva d'occhio. Si sedeva in un confessionale di contro al pulpito e seguiva le prediche parola per parola. Dovevano stare al Vangelo; non uscire dal Vangelo e dovevano anche essere brevi, sempre meno di un'ora. Mi ricordo che una volta padre Semeria, trascinato dalla foga oratoria, andava avanti... andava avanti... e allora il preposto si alzò e uscì dal confessionale. Il predicatore capì l'antifona, fece una bella chiusa, allargò le braccia e: «Avrei ancora molte cose da dirvi, miei cari, ma... padre preposto... padre preposto». Quelle orette passate in Sant'Alessandro, la nostra chiesa così bella, calda e confortevole... vicino alla mamma e tant'altra gente in giro, stretta... stretta... a guardare in su al pulpito come a prender l'imbeccata, rimangono fra le ricordanze più riposanti della mia vita.

Difenderci dal mondo esterno e nemico sovente! La chiesa ci difende! Oh, le beghine come le capisco! le chiamano beghine quasi a disprezzo, ma hanno ragione loro. La chiesa dà tutto. L'isolamento, la pace e i divertimenti pure. Ci sono bei quadri, belle musiche, piacevoli conferenze e sontuosi spettacoli: una Messa cantata in solennità, un Pontificale non è forse bello a vedersi? E poi c'è il proverbio:

chi sta taccaa al campanin
non ghe manca pan e vin
e infine c'è l'anima che si salva.
Non so cosa sarà della mia dopo le poesie che ho scritto e quelle che dico, ma ormai che mi trovo in quell'età in cui:
el corp el se frusta
e l'anima la se giusta

ritorno col pensiero, e non col pensiero soltanto, agli ideali candidi della prima fanciullezza e, la mano nella mano di mia madre, ritrovo come in sogno e ripercorro il breve tratto di strada che separava la nostra casa di via Olmetto da quell'altra casa più grande che ci accoglieva così sovente ed era per noi di sì dolce conforto.