Ore di città/55

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Ore di città/55  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

Le tre fedi[edit]

Giro per rintracciarle le nostre tre fedi nelle tre chiese ove fummo battezzati mio padre, mia madre ed io.

La famiglia di mio padre abitava in San Paolo nel territorio della parrocchia di San Fedele e ci rimase cinquant'anni. Non si può dire che avessero la casa in spalla. Entro in San Fedele per di dietro, da quella chiesetta che le si è appiccicata all'abside come una natta. La Madonnina che vi si venera dovrebbe esser la più indulgente della città se è vero che le ballerine della Scala la elessero a loro Patrona e confidente... per quanto, però... (imperscrutabile mistero del Giudizio Particolare!) un peccato che è gravissimo per la signorina del primo piano può ridursi a ben poca cosa per la figlia del portinaio.

Entro e rimango male; all'altare non c'è nessuno. E le graziose penitenti? Ma un altare non ha bisogno di fedeli per raccoglier preghiere, prega per conto suo, è una visibile preghiera.

Immagino le confessioni piene, fiduciose e abbandonate delle care peccatrici a questa balaustra e la Madonnina a capire e a compatire e qualche volta a concedere la grazia di nobili e ricche nozze già pazientemente preparate dalla furbizia femminile. «Le ballerine della Scala che sposarono gentiluomini lombardi - mi diceva uno studioso di cose milanesi - fecero tutte ottima riuscita e, per quanto venute dal popolo, furon sempre gran dame». Che sia anche questo - mi domando - un portato della Grazia? ... in una chiesa non è poi così facile trovar la porta della sacrestia. La cerco lungo le pareti, marcio in costa da altare ad altare, da confessionale a confessionale. Scorgo lo scialle nero della poveretta e... «che la me scusa... - chiedo - ... dove l'è?»

«La porta?... l'è lì, la porta della sacrestia - e me l'accenna con un ditino - el va in fond al corridor, el sona on campanin e ch'el specia che riven e ch'el faga a ment al basell...»

Non è un corridoio, ma un androne buio, una galleria alta e lunga. Trovo il campanello, suono. Nessuno compare ma dopo un po' si illumina una stanza di là da una portina a vetri: «Con permesso?!...» Ancora nessuno. Sto contemplando quei mobiloni larghi e massicci propri delle sacrestie e ne saggio il legno con le nocche delle dita (... «Noce!»... - dico -) e mi accorgo - d'un subito - di non esser solo... difatti:

«Il signore desidera?...»

La fede di battesimo del bambino Tessa Senio Francesco Carlo di Delio e di Livia Milesi esce da un libraccio legato in costura a pergamena come i fogli del catasto... il catasto delle anime - penso - delle anime che sono emerse e per poco e ora... Rileggo la fede trascritta su un modulo in un mezzo foglietto e quel «Tessa Senio di Delio» mi turba come se mio padre non fosse più mio padre, ma mio figlio... la piego, la metto in tasca e... «Quanto devo?» domando.

Il sacerdote china il capo, allarga un po' le braccia come all'ite missa e... «Oh nulla - risponde - se crede, una piccola offerta...»

In chiesa poi, in una cassetta delle elemosine a un altare, introduco una moneta che nel silenzio, cadendo giù, fa un gran rumore, empie tutta la navata...

Mia madre fa una certa fatica a tirarsi in mente dove è stata battezzata. Ci pensa a tavola, ci pensa a letto ed è proprio a letto che improvvisamente se ne è ricordata. Come se sognasse la sento che dice: «In ca - Castigliona!» Abitava quando nacque in casa Castiglioni.

«Ma come t'ée faa a recordaten?» le chiedo la mattina dopo.

«Per via di scarpett della povera Angelina». E mi spiega che alla zia Angelina, che aveva allora cinque anni, il calzolaio aveva portato un paio di scarpette nuove e che lei le aveva buttate subito nel naviglio: «sicchè donca - conclude - voeur dì che stavom sul pont e cioè sul pont de porta Venezia».

In San Babila (circoscrizione di Casa Castiglioni) càpito non troppo a proposito. I preti sono impegnati in un battesimo. Vedo che ci sono fuori i piatti d'argento su tre file sovrapposte. Quelli più grandi in mezzo, quelli più piccoli sopra e sotto e ne deduco che deve essere uno di quei battesimi che definiscono de mezza cardenza.

Il bambino non si lagna dell'acqua fredda, protesta invece per il sale. Vagisce lungamente... angosciosamente. Opprime. Quando finirà? Il vagito del neonato più che di pena dà un senso di smarrimento, non ha né ritmo né tono, sta all'un capo della gamma vocale dell'uomo, come il rantolo del moribondo sta all'altro estremo. Entrambi appartengono a una zona neutra, sembra che qualcosa si laceri con loro, l'infante strappa con strazio la sua piccola vita da quel mondo ignoto che va abbandonando e il morente la sradica faticosamente, peduncolo per peduncolo, dalla terra.

Ecco m'assale un ricordo, vivo ma lontanissimo. Sono a Pavia in un mattino di luglio. Strade deserte in quelle prime ore del giorno. Giro colle dispense di economia politica nella testa, in attesa dell'esame... corso Vittorio Emanuele... via Mazzini... corso Cairoli... Università, chiese, ospedale... Le finestre dell'ospedale sono aperte. L'aria pura della mattina entri, entri liberamente nelle sale appesantite dall'afa notturna! Col tanfo del chiuso esce da una di quelle finestre in cerca della luce, esce per salire... disperdersi un rantolo cieco, un rantolo roco... Mi fermo in ascolto. Dice qualcosa quel rantolo, parla... a chi? Dice - mi pare - a quel cielo così ricco d'oro nell'aurora... dice... «Vengo, ho ancora qualche peso da portar su dal sotterraneo, ma son pochi ormai, sono gli ultimi e vengo... son qui...»

Insiste però, persiste come questo vagito che non si placa. La cerimonia battesimale chiude affrettatamente. Alcuni passano in sacrestia, altri col bambino, presto, presto perché si calmi, perché non pianga più, si volgono all'uscita. Ancora un vagito, ancora un lagno lontano che galleggia sul romorio confuso della città... poi, la chiesa, soltanto, muta.

Sant'Alessandro! La mia parrocchia!

Fra casa, scuola e studio ci son girato intorno per quarant'anni! Mi piace ora sedermi su una panca a meditare. Plaghe di tenebre, coni di luce sotto le lampade elettriche alle pareti. Riodo dal pulpito gli ammonimenti di padre Gazzola il preposto alle beghine. «E adesso che avete la luce elettrica, mi raccomando, non bruciatemi le panche coi vostri moccoletti».

I confessionali vuoti, gli altari deserti. Nessuno. Non sento le ciabatte del Gaitan strascicarsi per la chiesa a dà el rugh ai donnett dopo il rosario: «Andemm, foeura che sarom». Non c'è più el Gaitan? È morto? È andato in pensione? Trovo invece al suo solito posto el Natalin sarto e portinaio dei padri e el Natalin - come tutti i sarti - mi guarda al disopra degli occhiali. Mi riconosce e...

«La soa fed?... Sì... Sì... Cià... cià, ch'el vegna chi che ciami Pader Castelli...» Risulta che fui battezzato lo stesso giorno della nascita. So che la nonna Livia non mi volle quasi vedere prima del battesimo; scoteva il capo, compassionandomi nel suo dialetto cremasco: «Poarì... poarì» - diceva. Oh poverino, cos'ero per lei in quel momento? Una bestiola e null'altro. Ma quando mi riportarono dalla chiesa la nonna era in cima alla scala ad aspettarmi...