Ore di città/43

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Ore di città/43  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

Dai cieli bigi[edit]

Questi sono i giorni che più mi ricordano mio padre.

Vivo con lui portando in giro quel suo famoso ombrello a becco che per oltre trent'anni l'accompagnò per le vie di Milano. Vi confesso che onoro di un culto più profondo il manico di questo parapioggia suo levigato dalle sue mani, che la sua tomba a Musocco.

Andava giù da via Olmetto, via Amedei, Zebedia, Carlo Alberto... adagino... adagino... verso piazza del Duomo... Quasi quasi senza accorgermi, rifaccio la sua strada camminando come lui camminava al margine dei marciapiedi... aveva un paltorello color pulce comperato all'Unione Cooperativa e portava sempre un cappello duro che acquistava invariabilmente dal Casiraghi in Galleria. «Dodes lir l'è on poo tropp, mi gh'en doo des, come el solit...»

«Ben, ben... femm des perchè l'è lu... voeur dì che el me darà de pù on'altra volta...»

Quando poi veniva quell'altra volta fra il signor Casiraghi e il signor Tessa si ripeteva parola per parola il dialogo dell'acquisto precedente.

Pensate... pensate... da San Babila alla posterla dei Fabbri, dai Portoni di Porta Nuova alle Colonne di San Lorenzo sempre le stesse parole, sempre la stessa gente, le solite passeggiatine, i soliti ombrelli che duravano e duravano se non si perdevano... La nebbia... la nebbia in questi giorni fra Sant'Ambrogio e Natale chiude l'orizzonte, isola la città, la rimpicciolisce, la popola di ombre. Piove? Non piove, ma tutto è molle, umido, opaco...

La sera del dodici dicembre ci si radunava tutti in via Cesare Correnti dalla nonna per Sant'Amalia. Pontificava la nonna in sala nel suo vestito di tigra (lo chiamavano così perché confezionato con un tessuto antico di seta, tigrato). Sedeva la nonna fra el scior Gasparett e el scior Pavia. Sua sorella, la zia Gaetana, una donnetta originale era stata per l'onomastico a pranzo da lei ma se n'era andata prima del ricevimento per non veder gente. In anticamera tumultuavano i nipoti. Si giocava a «quante cocucce?». Ho dimenticato tutto: cosa fossero le cocucce, le regole del gioco... rivedo soltanto un cerchio di ragazzi e riodo quelle domande e quelle risposte che s'incrociano:

Quante cocucce?
Tre cocucce!
Quante cocucce?
Sei cocucce!..

In sala intanto parlavano e servivano il the. Verso il novanta in Italia il the era cosa rara, una novità. I colleghi di mio padre, gli impiegati della Cassa di Risparmio lo disprezzavano:

«Coss t'è mis dent in la cogoma? - (la theiera) - El fen?»

Il the per loro era fieno, fieno tritato!

... Non più tardi delle undici si tornava a casa. Un mare di nebbia! La Vettabbia in Santa Croce, il Naviglio alla Pusterla mandavano su gelide folate bianche... si camminava a tastoni rasente ai muri da un fanale a gaz a un altro fanale... a casa... a casa presto! Oh! la mia stanzetta verso la seconda corte col lettino lungo la parete e la bocca della stufa vicino!...

Nebbioni come quelli oggi non se ne vedono più. Mi ricordano altre sere e il teatro Gerolamo. Ci si andava - mi pare - a novembre e poi ancora più tardi a Carnevale. Il dicembre era riservato al presepio meccanico. O io ero molto stupido o i bambini d'allora erano ingenui veramente. So che la prima volta che mi condussero alle marionette in piazza Beccaria e che si stava di fuori a far porta credevo che lo spettacolo fosse tutto lì. Difatti vedevo - ammirando - di là dai vetri smerigliati delle ombre che si muovevano, erano gli inservienti del teatro che di dentro accendevano i lumi e preparavano la sala e quello per me sarebbe forse bastato. Ho visto al Gerolamo i «Promessi Sposi»... un raggio di luna scendeva di traverso a illuminare Renzo e Lucia nella barca. Le spadine a raggiera di Lucia brillavano a quel raggio... «... addio, monti sorgenti dall'acque...»

A Carnevale dopo la commedia c'era il ballo. I musicanti della piccola orchestra uscivano spuntando a uno a uno da un buco sotto il palcoscenico col loro violino, col loro flauto sotto ascella. Davano «La stella del mare». Sulla tolda di un bastimento un cannone sparava al primo episodio (mi turavo le orecchie per non sentire il colpo) e per drammatici episodi si arrivava all'apoteosi finale. L'eroe della vicenda sfolgorava in alto, in trono, a fianco della sua bella, lui in piedi, lei seduta fra girandole multicolori. Girava tutto e calava il sipario...

Uscivamo e in piazza, ecco... la nebbia, il nebbione lombardo! Ci si cadeva dentro e si scompariva. C'era lì col bavero alzato e il cappello calcato giù il papà ad aspettarci. Tornava da piazza Mentana, da casa Cornaggia ov'era stato a tegnì i cunt di paisan.

«E inscì! L'è staa bell? - chiedeva - v'è piasuu?»

Il papà - come v'ho detto - camminava sull'orlo del marciapiede o giù addirittura ché tanto a quell'ora non c'erano veicoli. Andava lesto lesto tirand su el ficc...

«Don Giovann (chiedeva la mamma) el t'ha daa el caffè?»

«El m'ha daa el capilèr...»

El capilèr era un caffè lungo con dentro una scorzetta di limone. A lui piaceva proprio così, magari lungo ma caldo, bollente!