Ore di città/42

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Ore di città/42  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

Lo zio tomm[edit]

... tomm col t minuscolo e con due m perché non è quello famoso della capanna ma mio zio, el zio di tomm, delle tombole, delle cadute; ecco!

Nei suoi novantatré anni di vita (va per i novantaquattro), ne ha fatto un numero rilevantissimo, alcune delle quali classiche. Ritengo che quella veramente classica - appunto perché occorsagli in Roma - la fece visitando con mia zia le rovine del Foro Romano. Lo zio Ercole aveva sempre avuto una curiosa andatura leggera da saltamartino. I suoi amici in gioventù lo chiamavano «el bacchett» perché dei bacchett aveva la rigidità e la secchezza. Camminava dritto, tutto d'un pezzo e, incespicando, tutto d'un pezzo cadeva giù. Quel giorno salterellava a inconsiderati passettini su e giù fra le antiche durissime pietre del Foro e... ticch... tacch... tacch... pumm! piombò di schianto battendo la cassa dello stomaco sul miliarium aureum delle grandi vie consolari! «Ercol... Ercol! Cossa te fóttet?»

Lo tirarono su che respirava appena e lo portarono all'albergo in botte. La sera stessa la zia Luigia ne scrisse a mia madre così: «Carissima Clara,

sono un po' in pensiero per l'Ercole che quest'oggi visitando il Foro Romano mi ha fatto una delle sue solite cadute... però adesso dice di sentirsi meglio...»

Delle sue solite... già... Un'altra gli capitò a Laveno quando era fuori per qualche giorno in campagna dalle sue nipoti. La sera, dopo pranzo, lo accompagnavano alla stazione per prendere il treno per Milano. Come fu, come non fu, si diede... ma come si dice in italiano «dass la gambiroeula»? forse farsi lo sgambetto ma non credo che sia la stessa cosa, insomma s'ingarbugliò colle gambe e... patapumfete! andò a sbattere contro una colonnetta della carrozzabile. Nel rotolone la bombetta gli finì in mezzo alla strada proprio nel punto in cui passava un omnibus d'albergo che se la tirò sotto. Col cardanello schiacciato come avrebbe potuto lo zio Ercole tornare a Milano?

Quella sera dovè fermarsi a Laveno per partire la mattina dopo col feltrino di suo genero troppo largo per lui e che gli scendeva fino alle orecchie.

Un terzo infortunio lo colse a Moltrasio. Tutti erano in lancia, le signore e le signorine in fondo raccolte sulle panchine a ferro di cavallo e due giovinotti ai remi colle pale dei remi in su pronti alla voga. Aspettavano che l'ultimo, quello che doveva sedersi in punta, spingesse la barca in acqua. Chi doveva spingerla era mio zio che avrebbe poi anche dovuto spiccare un bel salto per salir su. Ma non gli venne fatto. L'operazione gli riuscì solo a metà dacché la lancia prese il largo trascinandosi dietro mio zio miseramente in acqua attaccato colle mani alla punta. Lo pescarono subito e lo accompagnarono disopra a cambiarsi.

Io rido di lui perché so di fargli piacere ricordandogli qualche episodietto buffo della sua felice vita coniugale.

Poi - morta la zia - vennero giorni men lievi. Andò a stare in un appartamentino di via Velasca. Per arrivarci si passava da una portineria che era un buco col portinaio dentro in papalina, ciabattino ancora, ultimo di una generazione scomparsa. Si saliva poi per un'erta scaletta da campanile e al terzo piano ci si aspettava di dover tirare il cordone del campanello col fiocco. Ma no, il campanello perlomeno era elettrico.

Nelle sue cinque stanze verso corso Roma lo zio Ercole riceveva sovente un suo cugino tanto caro e simpatico uomo. Per quanto accademico d'Italia era così semplice, alla mano! Se veniva da noi per qualche conferenza era sempre ospite suo, così, in famiglia. Li serviva a tavola in saletta, di faccia alla panadora con su, uno di qua e uno di là, le due uova di struzzo ad ornamento, la vecchia domestica, la Nina, quasi cieca, tanto cieca che una volta preparando il minestrone invece del riso mise nella pentola il miglio dei canerini!

Lo zio Ercole è uno degli ultimi garibaldini (credo che ormai siano sette o otto in tutto) ma delle sue campagne parla poco e mal volentieri.

Ho cercato di quando in quando di tirargli fuori qualche cosa:

«E a Bezzecca? Te se regordet? Come l'è stada?» «Pioveva» «E Garibaldi? Di sù? Come l'era?»

«L'era un omm faa dent in d'on mantell».

Mi raccontò invece come fu che scappò di casa per seguire i legionari. Prima aveva passato la visita regolare ma il medico non s'era fidato di quel giovanottino magro e piuttosto giallo:

«... ti invece torna a cà, se no, alla prima marcia, te s'ciopparà i tubercol...»

(«S'cioppà i turbecol» credo volesse dire nel gergo del tempo tirar su sangue).

Come è facile immaginare il medico prese un granchio. Riformato alla visita mio zio raggiunse le truppe il giorno dopo e marciò cogli altri e marcia tuttora.

Un'altra volta mi raccontò questa: «S'erom in su on praa sotta a on pianton de nos e avevom preparaa ona bella risottada...»

... il risotto, cotto in disparte su un fornello improvvisato, era stato poi messo sull'erba nello stesso recipiente di cottura. I garibaldini gli si erano posti intorno in cerchio e mangiavano pescando nel marmittone. Ma a un certo punto comincia a espandersi per la campagna e a intensificarsi via via un odorino che il risotto alla milanese non ha mai pensato di emanare.

I garibaldini si guardano l'un l'altro prima stupiti poi sospettosi: gli interrogativi si incrociano colle ripulse... «Te sé staa ti... no l'è lu... sont minga mi...»

Si alzano, si fiutano a vicenda...

«Porcon!»

Insomma non si può più star vicini al risotto. Guardano nella pentola esterefatti... «Ma no... l'è risott... domà risott...»

A uno finalmente viene una idea. Alza la marmitta dal prato e tutti comprendono che era stata messa in un posto che sarebbe stato meglio evitare. Mio zio rideva sotto i baffi, se li lisciava, soddisfatto, e concludeva così i suoi ricordi di guerra...

«Che temp! Che risottada!»