molto elevata. Questa forte mortalità sarebbe stata controbilanciata da una natalità pure molto elevata, probabilmente dell’ordine del 40%, che avrebbe rappresentato «una sorta di risposta alla <sfida> permanente dell’ambiente montano».[11]
Questo scenario si basava però su estrapolazioni e analogie più che su dati empirici ancora assai scarsi e frammentari. I numerosi studi condotti o comunque pubblicati nel corso degli anni ’80 hanno, come è noto, modificato profondamente questo quadro, dimostrando la fondatezza di quanto alcuni storici e geografi avevano già sospettato, vale a dire che in realtà nelle Alpi si moriva un tempo relativamente poco, con tassi di mortalità infantile che già nel 18 secolo erano non di rado inferiori al 250 o addirittura al 200‰, speranze di vita (e0) che potevano raggiungere e superare i 35 o anche i 40 anni, e quozienti generici di mortalità tipicamente assestati tra il 20 e il 30‰ - tutte cifre decisamente migliori che non nelle pianure circostanti.[12]
Questa scoperta comportava una radicale revisione delle nostre concezioni. Per controbilanciare la mortalità, infatti, non era necessaria una natalità elevata, bensì, al contrario, o una bassa natalità oppure, in alternativa, un ricorso forse massiccio all’emigrazione. Questa seconda soluzione appariva a prima vista la più ovvia, adattandosi bene alla canonica immagine braudeliana della montagna come fabbrica di uomini spinti dalla povertà e dalla pressione demografica a riversarsi a valle, fungendo da serbatoio di manodopera a servizio delle più prospere e dinamiche economie di pianura.[13]
Tuttavia, l’altra fondamentale scoperta delle ricerche di demografia storica degli anni ’80 fu che la nuzialità alpina del passato tendeva ad essere estremamente bassa. L’età al matrimonio era tardiva sia per gli uomini sia per le donne, così come era singolarmente elevata la proporzione di coloro che non si sposavano, spiegando in gran parte livelli di natalità che - in qualunque modo si misurino (quozienti generici di natalità, tassi di fecondità totale, indice If di Princeton) - appaiono in generale assai contenuti.[14]
La storia demografica delle Alpi era dunque stata caratterizzata non da un regime «ad alta pressione», come si era supposto, bensì da un regime «a bassa pressione» in cui tanto la mortalità quanto la natalità erano assai più basse che non nelle pianure. Queste risultanze davano ragione a una delle poche voci dissidenti degli anni ’70, quella della geografa austriaca Elisabeth Lichtenberger, che reagendo contro quelle che definiva «idee preconcette e pericolose intorno al mondo alpino» aveva sostenuto che ben difficilmente le Alpi potevano aver rappresentato un importante serbatoio per l’urbaniz-
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