Ore di città/34

From Wikisource
Jump to navigation Jump to search
Ore di città/34  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

La Nord[edit]

Da casa sua alla stazione di Camerlata Linati passa in mezzo alle case di Rebbio brontolando: «Quell Rebbi! Semper qui cà, semper quella gent... podevi nass in d'on sit on poo mej...» Cerco - ma inutilmente - di rendergli sopportabile il natìo borgo:

«E il signor curato? Mi sembra una persona così allegra e simpatica!»

«Sì, sì, va ben el curàa... ma Rebbi... quel Rebbi!...» La stazionetta della Nord è abbandonata in fondo a un valloncello. Dopo settant'anni di vita c'è qualche timido tentativo di rimodernamento. Alla sala d'aspetto stanno lavando la faccia. Come sedili hanno messo lì i divani dei vagoni di prima classe, mancano però le spalliere di pizzo con su F.N.M. I vagoni sono andati in disuso, ma i divani li hanno goduti. Di fuori, a parte i fili della trazione elettrica, tutto è ancora come prima. Non una voce, non un passo. «Tac - tatatac - tactactac» (l'alfabeto Morse) e poi - subito - più in là... «din... din... din... din...» (il campanello di segnalazione di un treno in arrivo) quasi senza accorgersi i nostri passi flosci sono attratti verso il frinire monotono di quella soneria tremula e brillante; sembra un batter d'ali. Ci fermiamo sotto.

Ora, di notte, è il grillo della stazione, ma non è la sua vera luce questa:

«Vedi - dico a Linati - bisognerebbe che noi tornassimo in sala d'aspetto e sui divani della prima classe ci lasciassimo andare a un pisolino che tanto non abbiamo altro da dirci, tutti gli argomenti sono stati toccati... l'arrivo di Pastonchi a Cantù, il dinamismo di Luzzani, il premio a Bernasconi, il fidanzamento della Delia, il poco che ci dànno come scrittori... e poi ci siamo anche già salutati. Fra il sì e il no della veglia assonnata con quel din... din... din... din... che viene e va, trilla e si vela, un altro paese vedremmo, in altra ora... Caravaggio! Non so perché vedrei la stazioncina di Caravaggio o quella di Melzo perduta - pardon! - 'sperduta' come si usa scrivere ora, nella distesa dei campi...»

La Nord è la più aggiornata delle ferrovie; ha fatto scomparire dal suo servizio la seconda classe che prima di guerra serviva a quella borghesia attiva, dignitosa e benestante che ha costituito per tutto un secolo l'asse di rotazione della intera società. Oggi i borghesi di allora o sono saliti verso la prima o sono scesi verso la terza. Io, bene inteso, mi trovo in terza. Ci sto bene comunque anche se al duro e Dio volesse che tutte le durezze si riducessero a questo sedile!

L'aumentata velocità dovuta alla trazione elettrica squassa gli annosi vagoni che ti dan l'impressione di tenersi insieme l'un l'altro per non essere sbalzati dalle rotaie. Le fermate e i nomi familiari sono oasi di pace. Respiro leggendo: «Caslino al Piano», sorrido mirando su un binario di manovra una fumigante vaporiera alla Stephenson dal domestico nome di «Turbigo». La stazione di Rovellasca Manera pone un problema al viaggiatore. Perché il nome del paese è scritto tutto da una parte e non in mezzo? C'è una lesena che ha rotto la simmetria. Forse la stazione è stata ampliata? Domande senza risposta. A Saronno mi manca qualcosa. Dapprima non so rendermene conto, ma poi... ah... sì... ecco, mi manca il grido di quel ragazzo: «... amaretti di Saronno, biscottini di Novara...» Quel grido, quando tornavo in autunno da Moltrasio con gli esami da ripetere in ottobre, era per me un brusco richiamo alla realtà. Prima di Saronno vedevo ancora il profilo delle montagne. Per non perderle di vista voltavo le spalle alla pianura e andavo indietro, ma gli «amaretti di Saronno» mi dicevano poi che tutto era proprio finito per quell'anno. Avevo già preso ripetizioni dal professor Fasanotti a Moltrasio e a Milano ne avrei prese delle altre. Devo rendermi questa giustizia. Banchi di scuola, insegnanti e libri di testo non li ho mai potuti digerire. In prima Liceo il prof. Retali di matematica mi aveva voltato l'occhio sin dai primi giorni. Cominciavano a non andargli i miei occhiali: «Guà, quegli occhialacci...»

...e poi mi accusava pubblicamente di disinteresse per la sua materia: «Guà, Tessa s'occupa di letteratura...»

... mi ha dato quattro al primo bimestre, quattro a tutti gli altri, quattro a luglio e quattro a ottobre. Quel disgraziato di mio padre che aveva speso un numero rilevantissimo di cinque lire in lezioni private, dopo l'ultima bocciatura si confidò tranquillamente col suo vecchio amico el dottor Candian e gli disse:

«El podeva perlomen dacch cinq!»

Alla Bovisa la città si annuncia con gli odori pestiferi dei suoi stabilimenti.

Mia madre - a proposito di questi miasmi nei primi tempi che c'erano - aveva diffuso una leggenda che godé di un certo credito nella cerchia familiare. Pretendeva che ci fosse uno stabilimento che trattasse industrialmente le ossa dei morti di Musocco dopo il decennio della loro tumulazione e concludeva:

«Ne fann foeura di botton».

L'affermazione categorica mi rendeva perplesso. So che in treno guardavo l'uomo qualunque che mi sedeva davanti e pensavo: «Vuoi vedere che per caso e senza saperlo ha una reliquia del suo trisavolo sulla giacchetta?»