Ore di città/20

From Wikisource
Jump to navigation Jump to search
Ore di città/20  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

«Dammi di che nutrire»[edit]

Che farò questa sera?

Sono stanco di Jean Harlow e dei suoi ultimi film. Me la fanno vedere troppo bionda, troppo nuda lei che è morta. La sua giovinezza in fiore mi si decompone sotto gli occhi e ai baci che le danno sento un freddo... ...la fraîcheur du tombeau... direbbe Baudelaire...

Con settanta centesimi raggiungo i sobborghi; prendo quella filovia che da piazzale Susa raggiunge per la Stazione Centrale un altro capolinea che non conosco.

«Filo-via!». Già, già, è lui che lo dice; è il bel carrozzone confortevole silenzioso e veloce che fila via pei larghi viali alberati e un po' bui alle soglie della campagna. Dove sono? Mah! Nomi di strade ignote... un prato che forse è grande, punteggiato di lucciole... poi case e poi ancora prati... lucciole e grilli...

Fermata.

Anche a quest'ora tarda quanta gente da queste parti! Mi fa l'impressione che se qualcuno parlasse milanese mi ritroverei, ma non parlano e mi sento lontano, estraneo... guardo, cerco di capire. Tornano dalla stazione, rincasano. Ci sono, una qui, una là, una in fondo, tre signore sole, piuttosto belle un po' grasse fra i quaranta e i cinquanta. Una si alza, deve scendere. Tira su con qualche fatica la sua mezza pinguedine. I tre gradini dell'autobus li fa sempre con lo stesso piede. Ha il passo legato, va giù per una via laterale, deserta...

Queste buone signore dal cuore affabile abitano di preferenza i quartieri eccentrici per via dei Mercati Rionali. Venti o trent'anni fa eran matte ragazze in baldoria che vivevano giorno per giorno come le passerette della grondaia. Oggi sono piene di guai, di grattacapi, hanno i duroni ai piedi, la pressione un po' alta, si tiran dentro dei pesi... la vecchia madre... un figlio naturale in Collegio...

Però qualche amico d'un tempo c'è ancora. Gli telefonano dal bar al posto pubblico:

«Ciao Nino...»
«... ma sì... vegnaroo... lassa fà...»

E viene, difatti, qualche volta ma per passare un'oretta e nient'altro.

I pover stellasc - le chiamano così e chissà perché - preferiscono le case di nuova costruzione. Vanno a collaudare gli appartamenti. Piccoli sono, di due o tre vani, non più.

Il vecchio amico arriva dopo aver sbagliato il tram, la strada, dopo aver cercato per la corte inutilmente la portinaia e gridato su:

«Portinara!!»

Di solito l'uscio di legno è chiuso a metà. Picchia colle nocche perché il campanello non suona ancora. Di dentro, al di là del vetro smerigliato, si vede ondeggiare una vestaglia rosa, poi si sente un timido:

«Chi l'è?»
«Amici!» risponde.

La porta si apre un pochino tanto che passi una persona di traverso e si chiude subito.

Seduti su un divano la povera stellascia comincia a geremiare. Le spese del metter su casa... il caro vita... la vecchia genitrice... e tutto finisce nel ritornello: «Dammi di che nutrire!...»

Il gatto miagola, il cane abbaia e la stellascia ha pure il suo verso: «Dammi di che nutrire». Le basta vivere, ormai. In casa fa tutto lei; lava, stira... si occupa quando le capita, in piccoli mestieri avventizi; l'una copia gli indirizzi, un'altra ritocca le fotografie, una terza confeziona gli abiti per le vicine.

Appena potrà metterà su un Duplex, ma, come si fa? Son così cari gli impianti!...

L'autobus è arrivato in fine della corsa. Sono il solo passeggero. Il bigliettario mi fa capire che dovrei scendere ma, visto che non mi muovo, mi dà un altro biglietto.

Il manovratore vien fuori di dietro la tendina a scambiar quattro parole col suo collega:

«Te seet cosa l'è ch'el m'à ditt in Azienda el me protettor? Che se no toeuvi miee farò minga carriera».
«E ti toeula che te diventaree controll...»

Qui c'è uno scapolo, là ci sono delle nubili, a scelta, ma non mi sento di conchiudere un matrimonio!