Ore di città/11

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Ore di città/11  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma 1988

Il legatore di libri[edit]

Non so d'altri ma per me i libri più melanconici che mi conosco sono i fascicoli di Giurisprudenza e i trattati di diritto... libri d'uggia!

Quando li guardo allineati in bell'ordine sugli scaffali, penso alla mia morte e alla liquidazione del mio studio: «Ecco - mi dico - le sedie sgangherate, la poltrona di cuoio, per quanto vecchia, qualcuno se la prenderà e così pure le macchine da scrivere che hanno vent'anni, ma quei libri lì non ci sarà un cane che li vorrà!»

Un mio carissimo amico che era avvocato prima della guerra e oggi s'è fatto pittore quando partì nel '15 per il fronte lasciò lo studio alla mercè di Dio come don Abbondio la sua casa all'arrivo dei Lanzichenecchi. Durante la sua assenza tutto gli rubarono, tutto... dai tappeti persiani alla raccolta degli scrittori d'Italia! Però, tornando nel '20

congedà, congedà
col sacchett a la man

che cosa vide? Su un unico palchetto della sua grande libreria c'eran lì ad aspettarlo i Monitori del Tribunale, la Giurisprudenza Italiana, il Mattirolo, il Mortara, il Vivante... c'eran tutti i suoi libri di legge, non uno mancava, neanche i ladri li avevano voluti!

Con tutto questo - che volete? - ogni anno, in gennaio, li raccolgo, li rilego e li metto lì. È un processo d'imbalsamazione. A prenderli, per rilegarli, viene un ometto sbilenco, viene Mi Omo. Lo chiamiamo così per la sua parlata toscana. Con noi Mi Omo qualche volta si apre il cuore, si spassiona. Ci parla della sua casa al Guasto, una camera sola per tanti, per tutto! Ci parla dei nipotini che son con lui e quanti! E tutti a carico!

«Voglion pane!» grida Mi Omo.
E lui, per darglielo, corre, corre per la città a prender libri da rilegare.

Dice: «'Un posso mettere le scarpe de cuoio, me ce vogliono queste de tela perché ci ho il mal di cuore e me se gonfiano i piedi». Piove e ha le scarpe di tela... piove e corre con quei suoi libri grossi e pesanti fatti su in quel panno verde annodato pei quattro capi.

«Ce li rilego alla Bodoni...»

Ma quando tornano, i miei Monitori e le mie Lex, parlano di un lavoro affannoso, condotto sull'unico tavolo di casa, nell'immediata vicinanza della pentola. Sulle coste e sugli angoli ci son su le ditate dei nipotini, c'è qualche spruzzo volante dell'acqua dei piatti...

Mi decido ad amare i miei libri professionali per queste stigmate commoventi. Arriva Mi Omo ansando, col fiato corto, col collo teso. Sembra un can barbino che attraversi il lago col giornale del padrone in bocca. Vien dentro, ma... ahimè! I Monitori non ci son tutti, poi manca l'Indice. Non posso darglieli a rilegare. Mi Omo è triste. Capisco. Voleva il solito piccolo anticipo ma così non ha il mezzo di chiederlo. Esita e poi... poi si mette una mano sul petto e mi domanda, sì, mi domanda dieci lire! Però, con quella mano sul petto, giura, giura che non si tratta di un regalo, che non è un prestito ma solo un acconto sul lavoro futuro.

Quando, se Dio vuole, i Monitori ci son tutti gli si telefona per avvisarlo di passar qui. Ha il suo recapito da uno spedizioniere. Si capisce dal modo brusco con cui lo chiamano al telefono: «ei, lù!», che è lì per niente, che gli han dato un angolo per metter giù le sue robe fra una corsa e l'altra: «ei, lù... cià, ch'el se moeuva...»

Ieri, quasi quasi, spuntava già...
Non proprio la primavera, ma qualche cosa di simile.

Le pianticelle esili vaporavano in verde. C'era del verde fra carne e pelle. I ramoscelli brulli spiccavano sul cielo chiaro, netti. Che uccellino era quello laggiù che provava fra sé e sé una sua arietta? L'avvocato Falco in un impeto d'amore per le creature abbracciava uno dei tre gatti della porta ed erompeva in un «picinin» rauco di spasmodica tenerezza.

Ma oggi, oggi è una giornata che dà ragione al proverbio:
Marz l'è fioeu d'ona baltrocca
On bott el pioeuv e on bott el fiocca.
Nuvole in corsa, ventate diaccie; acqua o neve?

Sbocco da via Durini e sull'orlo del marciapiede, come sulla riva di un fiume, aspetto con tant'altri che il semaforo diventi verde prima di lanciarmi di là... Ho davanti la Torre di S. Babila. Si erge - albero della cuccagna! - coi suoi quindici piani a schiacciar giù le casette, le chiese, la gente. Più sù del suono delle campane c'è ormai il ticchettio delle macchine da scrivere, c'è il trillo dei telefoni e questo le buone donnette non vogliono digerire... È verde: passiamo. Di là... oh guarda! chi c'è? Mi Omo. Curvo, grondante acqua, tutto storto da una parte col suo fagotto a tracolla, i piedi in una pozzanghera e le scarpe di tela! «Oh, sor avvocato, buon giorno, ci ha bisogno niente da me?» «No, per ora». «Vede... con questo tempo... e bisogna che vada a piedi perché non mi vogliono sui tram per via dei libri... la riverisco... sor avvocato». «Attento, attento, è diventato giallo in questo momento, non si fidi...» Ocché! si slancia e, arrancando, attraversa... Ma in mezzo alla strada il fagotto verde si snoda e giù libri, riviste, fascicoli... e mentre Mi Omo, svelto, si china per... trach!... :Il semaforo diventa rosso!

Il tram 22 me lo toglie alla vista.
Riappare con un grosso volume sotto il braccio e sempre curvo con una mano a terra per raccogliere...
Ma no, un tassì gli è sopra e Mi Omo balza indietro e il libro gli scivola via.
L'autobus O passa sferragliando e tira sotto una mezza annata di giurisprudenza.
L'altra metà è un po' dappertutto.
Ma quando quel maledetto semaforo si deciderà a diventar verde?
Oh, finalmente! Tutti aiutano Mi Omo a raccoglier fascicoli e fogli.
«Oh povero me, grazie, grazie signori».
Sul marciapiede raduna i resti del naufragio nel panno verde, lo annoda, se lo carica sulle spalle e va...