Èl sgner Pirein/La vitta collettiva

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Èl sgner Pirein/  (1920) 
by Antonio Fiacchi
Èl sgner Pirein

LA VITTA COLLETTIVA[edit]

Che cossa è la Società?

— Secondo: se la fa i ritratt, si chiama Società fotografica bolognese con Sandrino Buvongiorgi, che per quanto finga di non saperlo, deve avere più anni di un altro che sia meno vecchio di lui; se si sentono delle schiopetate, è la Società del tiro a segno, anche che non colpiscano nel medesimo; poi cè quella delle levatrici emiliane che aiuta a nascere; quella della «_pro-scola_» che aiuta a insporcarsi le mani coll'inchiostro; ql'altra del risveglio cittadino, che potevano risparmiarsela, perchè non si gode altro che a dormire — meno male la pro-Via Farini, che almeno uno se ha bisogno d'andar in Strasteven, la percorre libero, o magari non ci passa perchè ci conviene meglio andare pr'èl stradlein di Pèpol.

Mo dichino la verità, non ci pare che con questo abuso del pro, si cominci a sentir la voglia di un po' di contro?!

Se si seguita accosì, èl capèl si chiamerà pro-testa; la stiopa: pro-caccia e un giurnal, se è noioso: pro-cesso!

Mo cossa vado a tirar fuvori, mentre non ci ha niente a che fare col mio discorso.

La Società l'è un nucleo di persone che si riunisce per vivere in consorzio nazionale... tgnand èl cadnaz all'ùss, el fnèster assrà, èl librètt dla Cassa d'arsparmi arpiattà int èl paiazz — che studia ed far crèdder ed trattarsla brusand dla carta ùnta int l'òura che ai srè da far l'arrost; zercand di guadagnare sul prossimo, che non è mica vero che si ami comme sè stesso, prova ne sia che se un vicino muvore, ci si va dietro pr'èsser zert ch'an tòurna brisa indrî, mentre ciò non si farebbe se si trattasse del proprio corteo.

Nel momento del maggior gaudio, dirò sociale, quando per uno spettacolo tutti accorrono nello stesso posto, ùn pesta i pî al fratello che gli sta accanto o fa le materioline alla sorella che ci volta le spalle, e ognuno si arrampica sulle membra del confinante nella speranza di vedder meglio, e rompendo, non di rado, diverse costole ad un ostinato che, messo fra lui e il muro, non ci lasciava libero il passo.

Ed ecco la poliambulanza che accomoda le costole al ferito, visto che ora non ci è più bisogno di adoperarle per fare delle donnine, come il Signore nel paradiso terrestre.

Certo che il vivere sociale ha dei grandi vantaggi, comme quello che ci si incontra sulle scale senza dirsi neanche: a rivedersi; ma poi se si va a domandare un fiamifero perchè i nostri si sono accesi tutti in una volta, come le lampade eletriche in via Nazionale a Romma, si è sicuri d'avèir l'usio sul naso; e non parliamo di nasi... perchè a fazz com è èl fazzulètt di cuntadein che al scappa vî premma ch'j al tojen fora d'in bisacca!

Lor signori forse dirano che io veddo tutto nero, com è quèl ch' guardava dèinter int èl calamar; ma invece ci so dire che anch'io veddo benissimo che ogni dritto ha il suo rovescio. Ed infatti, chi è quello, per quanto ignorante, che non capisca se ùn al va in là o al vein in zà?! Anch'io so aprezare i vantaggi della convivenza di tante migliaia d'anime aglomerate entro la cinta daziaria, che la srè comme dire la gusia d'un grande melone! Usite di casa e cè il lustrascarpe che ve le fa diventare uno specchio; il giornalista che vi prepara il vostro parere sulla sitovazione; èl tabaccar che vi somministra i zigari che non tirano come i due ucelini atacati al carro di Venere: la quale, hanno un bel dire che era una donina leggera, ma per tirarla su ce ne volevano altro che duve!... non ci pare?

Eppure, o su o giù, è un fatto che nel vomo cè l'estinto di andare dovve ve ne sono degli altri — se un benestante di campagna mette assieme qualche bajocco, ecco che si sente trasinato verso il centro, lasia la suva modesta casetta, circondata da latuga e cipolle, con un'aria pura da non consentir spazio fra il pranzo e la cena, con Turco che baia alla lòuna e Mascarein ch'al fa el canèl in grembo alla spòusa vstè ed rigadein, si capisce, lî, megga èl gatt!

Viene in città, a un quinto piano, con del stanzieini, che la moglie paragona ad un alveare; con disopra il proletario, che ubriaco, nel cuor della note, bastona la compagna della suva miseria... e quattro o cinque pezzi d'infanzia abandonata; con disotto alle finestre il fumo d'uno stabilimento di bagni; con di faccia della gente che vi fa l'inventario delle zangatole, magari a traverso i muri, e il Don Giovannino che bombarda colle pupille quel boccon di carne che sa di sole, dalla virtù incavtelata, perchè nata e cresciuta nella solitudine.

O incavti! Avete trovato bene il parangone dell'alveare, data l'angustia delle celle, con la differenza che quelle bestie che lì, guidate dall'estinto, non sbagliano la strada... ma in zittà a se sbaglia bus, spèss e vluntira!

E ci dicco la verità, che avendo in casa un poch ed zitrà ed magnes, un persuttein attaccato al soffitto, una zùcca ed vein, una buttsteina d'arnica pr'el bergnoquel dei pargoli, è pur sempre bella la solitaria vitta dei campi da cui deve essere venuto il «campare» cioè vivere con un occ rivolto alle stelle e ql'alter nel sorriso della famiglia. Se lo figurano un uomo in questo stato? No? Mi dispiace per la pochezza della loro imaginativa, invezi l'è una cossa che viene da sè, di raccogliere ciovè da un lato il sentimento della natura e versarlo da quell'altro sul seno dei propri cari...

Tersuà a lòur sgnòuri.


Dal _Bologna che dorme_, 29 giugno 1899.