Èl sgner Pirein/L'amore è un dardo

From Wikisource
Jump to navigation Jump to search
Èl sgner Pirein/  (1920) 
by Antonio Fiacchi
Èl sgner Pirein

L'AMORE È UN DARDO...[edit]

_Romma, 22 gennaio 1899._

Anzitutto li prego di non parlare colla mia buvona Lucrezia di questo fatarelo, micca per niente, ma alle volte, è un momento a turbare l'armonia, e loro sanno che tanto una famiglia comme il Liceo Rossini, non sarebbero completi se an i foss l'armunì.

Sicuro ero lì per Via Nazionale, acosì tanto per far venir sera, quando veddo una donina, smilza con duve piedi che parevano quelli di suvo fratello, dei capelli comme la pirùcca di Messalina e la faccia cosparsa di crusca da sembrare una pagnotta da suldà, e soridendomi come quèll tèst ed tigra ch'han fora i plizzar, mi si rivolge dicendomi diverse parole, da cui comprendo ch' l'era una furastira, perchè i furastir j ein com'è èl mal ed stòmgh; is capéssen dalla lèingua.

— Scusi, a fazz me, ma non ho il bene di capirla... E ricordandomi i vecchi studi d'inglese, ci sogiungo: _Ai not studerland_, che come sanno, vuol dire: Non capisco!

Ma lei poverina, diventando rossa e verde com'è un fugh dal bengala, pareva che non potese star ferma, e finalmente la dice:

— _Vater closet_...

— Ah, ho capito: non _closet_, vuol dire _soda-water_, venga meco, che la conduco alla farmacia.

Ma lei, ostinata, fava di no colla testa e sempre più si smaniava.

— Si spieghi colla mimica, a fazz me. E ci faccio capire coi gesti, che se aveva sete si tocase la boca, e via discorrendo: ciovè, tutt'altro perchè accosì non si parla.

Ma si vede che, oltre non comprendere l'italiano, l'era anch zuccòuna ed sô fatta, perchè tirand fora un apis, la scriv un 100 còntra la muraja e me lo indica.

— Ah, finalmente! esclamo io, mi dispiace, ma non ne ho degli spicci; eh! cambiar cento lire non è micca accosì facile... può provare da un cambiavalute.

Intanto pasava un altro signore e lei, senza neanche dirmi grazie per gli schiarimenti datici, va da lui e mi pianta lì; ma ci è stato bene, perchè lei si vede che cercava il palazo delle Belle Arti, e quèl sumaròn ci insegnò invece, poveretta, una di quelle che suvonano la sera i soldati nella piazeta dei Servi, e che è li vicina.

Imbecille! Ma pure, ce lo debbo confesare? Quel breve coloquio intimo con una signora che, senza dubio, era la figlia della bionda Albione, mi risvegliò nell'animo una simpatia profonda, poichè compresi quanta cultura e gentilezza di animo si racchiudevan sòtta a quèl capplein ed tèila inzirà, nèigra, che ci dava l'aria d'una butteglia incatramà, e mentre mi parlava, col vivo desiderio di essere capita, si leggeva su quel viso poch sdazzà, ma sempatich, una lotta interna, da lasciarmi capire che ci avevo fatto una certa impresione.

Accosì, quasi intratenuto da una forza irresistibile, a stè asptar; ma si vedde che non c'era subito lì il guardia-portone a dirci che s'era sbagliata, sicchè tardò un pochino a tornar fuvori, e, vedendomi lì, diventò nuovamente rossa, e siccome stava chiudendo il catovino degli spezzati di bronzo, preparò quattro soldi, e pare volesse darli a me, ma poì si pentì... e sorridendo nel guardarmi la si avviò.

Ed io: dietro! Cossa avrà significato con quella mimica che lì di dire dei quattro bajocchi? Chi lo conosce il gergo dell'amore per dlà dalla Mandga?

Che abia voluto farmi veddere che è ricca e puvò accosì far felice il vomo che la farà suva?

Basta, lei, ogni tanto, si voltava, e finalmente veddo che infila il giardino del Quirinale e parla con una guardia che è sempre lì, poi si mette a sedere togliendosi di tasca un giornale del suvo paese...

Io mi metto a fare il ronzinante intorno alla banchina e lei, per non compromettersi, invez ed guardarum a me, pareva che facese l'ochietto alla guardia, un piò brùtt rosp, e lui, per ingrazionirsi, fava il geloso sorveliandomi comme che fosi un sogeto pericoloso. Comme sono rari i vomini di spirito! com' dseva quèl che guardava una butteglia ed rusoli fatta con èl bost ed Garibaldi!

Ma la fiama entro di me, incigantiva; l'edea di essere amato da un cuvore straniero, era accosì nuova e accosì lusinghiera per me, che senza dar tempo a nesuno di meravigliarsi e dòpp avèir spulvrà alcune vecchie parole britaniche, mi getto a sedere nella banchina, esclamando:

— _Vere vell zengu'ju!_

La guardia fa l'atto di prendermi — ma l'angelo mio, perchè in quel momento era diventata un angelo, si mette a riddere... e ci fa cenno di lasciarmi stare. Il sentire la propria lingua in terra straniera, l'aveva comosa — poverina — e per dimostrarmi la sua gratitudine, la fa, la dis:

— _Yes!_

— A per zio, a fazz me, la voce del cuvore deve essere uguale in tutto l'universo, perchè i suvoi batiti hanno da per tuto la stesa cadenza... e accosi tu devi capire il mio amore, sebene non te lo sapia tradure in inglese. Lei seguitava a riddere e la guardia che capiva l'italiano, riddeva più di lei... Si capisce! gente materiale che credde che il feminismo consista fra una serva e quell'altra.

Però vedendo che per quanto quella donna mi amase, non riesciva a capire quello che dicevo, ci domandai, coi gesti, l'apis con cui poco primma aveva scritto il misterioso 100, int la muraja, e lei gentilmente me lo favorì dandomi anche un pezo di carta che aveva in tasca. Appena mi cinsi a scrivere, tutti mi furono sopra a veddere, e dei bambini rampicantisi sulle mie genocchia dicevano: Bravo, ci facci degli omarini!! Stufilà pur vualter, dicevo fra me, io stò lavorando per la mia felicità, ed infatti presento a lei, poverina, l'opera mia: un cuvore trapasato da una freccia.

Per disimolare naturalmente la propria pasione, la si mise a riddere tenendosi le mani dove avrebbe dovuto avere la panzina, ma quegli ineducati, che mi circondavano, compreso la guardia, cominciano a fischiarmi e a tirarmi delle breccie contro il ginasio... Oh sta a veddere che in duve minuti avrebero preteso che dipingesi chissà cossa.

È un lavoro fatto senza pretesa, e che solo lei deve capire ed aprezare.

Ma, non ci fu verso; j urel si favano sempre più forti e i ragazini non mi lasciavano in pace — talchè essa lasciando cascare, chissà con quale strazio, quella carta con il mio cuvore, la scappò zò dalla scalinà, mentre io, fatto eroico dalla potenza del nostro afeto, ingiunsi alla guardia di farmi largo in mezzo a quel monelismo di dire d'essere fatto a bersalio dla giarleina municipale.


  • * * * *

Sono pasati parecchi giorni — ma per quanto abbia gironzato preso gli Alberghi e nei fori dovve vanno i forestieri, non mi fu più dato di vederla, infelice, chissà comme sarà disperata!

Intanto l'unico conforto che mi resti è quello di andare tutte le matine a basar quèl 100 scrito dalle sue belle manone int la muraja!

Tersuà a lòur sgnòuri.


Dal _Bologna che dorme_, 26 gennaio 1899.