Èl sgner Pirein/Èl tèrramot

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Èl sgner Pirein/  (1920) 
by Antonio Fiacchi
Èl sgner Pirein

ÈL TÈRRAMOT[edit]

_Romma, 23 luglio 1899._

— Che cossa è il terremoto?

Èl tèrramot sono i sborborismi della terra, la quale, chissà che diavel la magna, ci si sviluppa dell'aria nelle viscere e produce qui sù e zò e quegli scuotimenti, comme succede nelle panzine umane.

Io ero lì sul letto che mi spezavo da solo il pane della sienza, quando sento il giacilio che pareva volesse malciparsi... Ohe! giudizio, signorine! a fazz me, ritenendo fosse una sciochezzina di alcune bestiole, che alle volte, nostro malgrado, alignano int i paiazz, che è poi per quello che si sente a dire che hanno bruciato il paglione.

Ma mentre facevo questa ipotisi, mi accorgo che anche altri ogeti apesi alle pareti, parevano scudrinà; tutta la verità mi si afaciò d'un tratto nella camera oscura dell'intelligenza... Non c'era dubbio: si trattava del terremoto... e che tèrramot d'un tèrramot!! Mi pareva di essere sull'altalena.

Intant la Lucrezia palida come il chiaror che vien dagli astri d'or; con quî quatter splùch drett sù int la tèsta, de parèir una sdareina fuori d'uso, con j ucc' fora dalla tèsta com è un ranocc' dscurdgà, la m'ariva int la stanzia urland:

— Ah, Pierino! Pierino! si spalanca la voragine. Salvami!...

È certo che lo scherzo è bello quando è breve, e la sdundlà la cminzipiava a èsser lùnga... Sicchè visto che non la voleva smettere, mi decisi a vgnir zò dèl lètt; se lo scopo che si era prefisso era questo, niente di meglio che livarum, per farlo cessare.

Infatti accossì fu, e la povra Lucrezia, riconoscente d'averci fatto finire tanto il susultorio che l'ondulatorio, si slanciò fra le mie braccia, ed io fra le sue che a pareven dòu vit sècchi di un vigneto abbandonato.

Questo lungo amplesso col contato dei nostri seni, ci rinforzò comme succede negli accumulatori dei trabai quando toccano il palo di carica ed io sciogliendo quella specie di nodo gordiano, a fazz:

— Ah, se Dio vol, anch quèsta è fatta!

— Pierino mio, che pavura... ho creduto nel momento di essere io, che mi venisse un improviso malore... e quando ho capito che era il taramoto, son corsa da te che sei il mio rifugio... pensando: almeno si schiaceremo asieme...

— Povra la mî cocca, il tipo vero della fedeltà coniugale di dire, se si dobiamo strifolare, strifoliamoci asieme, propri io sono come quel Polione, amante di Norma, che per quanto faccia per liberarsene, lei ci dice: «_sul rogo isteso che ti divora, sotterra ancora sarò con te_...». Che strazz d'una fedeltà!!

— E non deve essere accosì l'afeto che non ha confini, com è un Comune senza cinta daziaria?!

— Sì cara, l'è però una dsgrazia pr'i presentein!

— Chi êni i presentein?...

— Le guardie daziarie... sotto il vecchio regime... e se ci levi la cinta, cossa j arèsta, puver diavel?... la daga nò ed zert...

Ma mentre noi si giocarellava accosì di spirito per riaversi dal sacussot, che fava più impressione a pensarci su, di quello che nel momento culativo; sulle scale del casamento si sentiva un bacano d'inferno e anche noi, per non parere di volersi mantenere govisticamente estranei alle sventure cittadine, sortissimo sul pianerotolo.

Non ci so dire la confusione: vomini in bùst ed mandg; delle signore in corseto da note aperto davanti e che si facevano un X cole bracia sul seno per via del pudore; delle serve con la bòcca sporca ed pomdor pr'avèir pilucato èl cucciar ed l'ùmid; dei pargoli in patajola per star più freschi; una ragazzeina esterica, tremante com è una foja, centellinando un bichirein d'alchermes di S. Maria Novella... l'incombenza inevitabile per chi si reca alla città dei fiori.

Tutti parlavano in una volta, tutti nel rispettivo piano, con la tèsta vultà in sù com è ch'ai fùss un ballòn pr'aria, o vultà in zò com è ch'ai fùss cascà èl calzèider in fònd al pòzz.

Tutti, natoralmente cuntaven cossa i staven fagand nel momento della impazienza celeste, comme ci dirò poi che la spiegava quel fachino.

Sòul due sposini gioveni che stanno al quarto piano, smurt comme duve pezze lavate, erano talmente imbacuchiti che uno diceva una cossa, uno un'altra, e fra sti coss non si capiva cossa stavano facendo.

L'Ermenia, la serva dei Brigoli, stava macinando il caffè quant a j è cascà adoss la scatla dèl lùster ch'era sù per la fuga, fagandi vgnir èl nas nèigher com è èl Duttòur Balanzòn.

La signora Birilli, una vedovina tutta gas e benzina, apoponas e china Migone, dice, che era disinta e stava scrivendo un carmine, perchè si diletta di povesia, quando ha sentito quel affare, nel momento ha creduto fosse uno stiramento di nervi, poverina, è tanto nervosa, ma fatta consia della verità si è infilata la vestalia ed è corsa sulle scale... e dicendo a così lascia vedere una gambina nera con delle ciabattine già ricamate in lana.

Un socio dello sport fava lo spavaldo dicendo che appena aveva sentito il terremoto si era messo a cantare: «Celeste Aida».

La portiera dal fondo del abiso, chiedeva se era vero che fra duve ore sarebbe venuto il contracolpo, perchè, diceva, che la roba che si era spostata doveva tornare a posto.

Un professore, che sta al mezzanino, che ha in corso di compilazione una gramatica greca, al punto che la povera suva signora la tein purtar un fazzulètt ligà com è quant s'ha la flussiòn, per vî 'd ed tgnir a post el mandebol dal gran sbadacciar, si accinge a spiegare alla portinaia che cossa sia il felomeno del terremoto...

Allòura molti stanno per ritirarsi nei proprî apartamenti, presi da quel malesere che fa nascere il ricordo dei tempi felici nella miseria, quando io dall'altezza del mio quinto piano svincolandomi dalla Lucrezia che non mi vorebe lasciar parlare, per tema che dichi delle bazurlonate, a fazz a degh:

— Scusi professore, permete che ce la dicca io la spiegazione del terremoto comme la dava un fachino della mia città nativa?

— Facci, facci pure, m'arspònd il dotto vomo, arabè perchè ci rubavo il mestiere.

— Jusfètt dmandava a Pirein: Te ch' t' cgnoss tanti coss, em sat dir, cuss è èl tèrramot?

— Ai vol poch. Hât vest èl Pader eteren ch' l'ha èl mònd in man con in zemma una crusteina?! Bèin, ogni tant al cava la cròus e al guarda zò. Quand al vèdd che a fèin i matt, al dà una scussadeina digand: Ohe! galantomen, druvà giudezzi!

Un rumagnol che sta al primo piano al fa:

— L'è vèccia più ch'è èl cùcch!

— Mo è bellina...

E i spuslein, el seruv, i padron, el ragazzi, i tusett, eccetera, i turnonn rinfrancati dèinter in cà a finir le cose lasciate in sospeso.

Per parte mia, ad esser proprio sincero, con loro ormai posso dirci tutto, un po' di impressione mi è rimasta, ma micca per quelo pasato, ormai quelo non sdondola più, ma per i casi avenire, col distacamento dei calcinaci, e le screpolature delle pareti, che si finirà di non avere la libertà propria e as vivrà in una specie ed capunara com è el galleinn, e quèst em sècca, com dseva quèl furmèint ch'i mitteven al sòul.

Tersuà a lòur sgnòuri.


Dal _Bologna che dorme_, 3 agosto 1899.