Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (2009)/10

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Famiglia e impresa a cavallo delle Alpi. Capitale economico, umano e sociale in antico regime
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[ 131 ]Famiglia e impresa a cavallo delle Alpi

Capitale economico, umano e sociale in antico regime


Cinzia Lorandini


Zusammenfassung


Familie und Firma in den Alpen an der Wende vom 17. zum 18. Jahrhundert


Das Geschäftsgebaren der Familienunternehmung Salvadori aus Trento erlaubt es, verschiedene Aspekte der Wirtschaftsführung im Ancien Régime zu analysieren. Ausgehend von der Leitung einiger Geschäftsstellen entwickelten sich die Salvadori innert weniger Jahrzehnte zu international operierenden Unternehmern, welche sich hauptsächlich im Fernhandelsbereich betätigten, dann aber auch als Dreh- und Angelpunkt für die Seidenproduktion figurierten und Finanzgeschäfte betrieben. Das strategische Wissen, welches die Familie vom Eintritt ins Tabakgeschäft bis hin zur Spezialisierung in der Produktion und im Handel mit Seide erlangt hatte, gesellte sich dabei zu den erworbenen Kompetenzen jenes Familienteils, der sich mit der Führung eines Finanzunternehmens mit Korrespondenten zwischen Italien und dem deutsch sprechenden Norden befasste. Der Weg der Unternehmung hin zum Erfolg kann daher als Anhäufung von Kapital - wirtschaftlich, menschlich, sozial - betrachtet werden; die Familie spielte dabei eine herausragende Rolle.


Famiglia, impresa e «capitale» in antico regime: una premessa

La letteratura economica e storico-economica ha manifestato un crescente interesse, sia a livello teorico che empirico, per la storia dell’impresa e degli imprenditori.[1] È emerso, per altro, come sia difficile definire con precisione i contorni della figura dell’imprenditore, tant’è che l’imprenditorialità è stata [ 132 ]identificata, a seconda dei casi, con l’abilità nell’assumere decisioni, la propensione al rischio, la capacità di innovare, la ricerca del profitto o la prontezza nel cogliere eventuali opportunità di guadagno.[2] L’individuazione delle caratteristiche essenziali dell’imprenditore risulta forse ancora più problematica in un’economia preindustriale, dove la definizione del comportamento e della mentalità degli attori economici incrocia il dibattito sulla presenza o meno di uno spirito capitalistico, con i relativi attributi di razionalità economica, ricerca del profitto e attenzione all’accumulazione del capitale.[3]

Il caso della ditta Valentino e Isidoro Salvadori di Trento, attiva tra la seconda metà del Seicento e la fine dell’Ottocento, consente di approfondire alcuni meccanismi dell’azione imprenditoriale in antico regime.[4] Benché ai Salvadori non sia possibile applicare il concetto schumpeteriano di imprenditorialità, dal momento che non si riscontra una particolare innovatività quanto a prodotti, tecnologie, modalità organizzative, fonti di approvvigionamento e mercati di sbocco, questi mercanti-imprenditori manifestarono un considerevole dinamismo nel cogliere le opportunità di profitto, variando tipologie d’azione e settori di intervento, e seppero creare un’ impresa solida, capace di sopravvivere a diversi passaggi generazionali.

Partendo dal presupposto che il successo mercantile in antico regime possa essere sostanzialmente ricondotto alla combinazione di tre fattori - la dotazione di risorse di un’ impresa, la maturazione di un insieme di abilità e competenze, e l’inserimento in una rete relazionale in grado di favorire gli scambi -, è possibile interpretare l’ascesa della ditta Salvadori tra Sei e Settecento adottando quale chiave di lettura l’accumulazione del «capitale», inteso nella sua accezione più ampia di capitale economico, umano e sociale. Il ruolo pervasivo svolto dalla famiglia in questo processo evidenzia come i vantaggi dell’impresa famigliare possano superare gli elementi di debolezza,[5] consentendo la formazione di una dinastia imprenditoriale capace di realizzare una progressiva accumulazione di risorse, conoscenze e competenze, e di conferire quella continuità agli affari necessaria al consolidamento di un’estesa rete di relazioni fiduciarie.


Le strategie della ditta Salvadori: un quadro d'insieme

Le principali scelte strategiche adottate dai Salvadori risposero all’esigenza di valorizzare le risorse di cui l’impresa era dotata, e contribuirono a loro volta a crearne di nuove. Quando, nel 1664, Valentino e Isidoro Salvadori si trasferirono [ 133 ]Fig. 1: Vie di transito nell area trentino-tirolese [ 134 ]a Trento, sede del principato vescovile, per avviarvi una bottega, i due fratelli si avvalsero delle competenze maturate nel «negozio» di famiglia. Il legame stesso con la famiglia d’origine non venne reciso, tant’è che venne mantenuta la comunione patrimoniale con i fratelli Angelo e Francesco, rimasti al paese natio di Mori.[6]

Benché Trento non fosse particolarmente dinamica dal punto di vista commerciale, la sua collocazione lungo importanti vie di transito ne faceva un centro logistico di rilievo (fig. 1). L’Adige favoriva i collegamenti con Bolzano e Verona, che costituivano i principali centri di smistamento nei traffici tra l’Italia nord-orientale e l’Europa centro-settentrionale. Il trasporto terrestre delle mercanzie provenienti dall’emporio veneziano si avvaleva, inoltre, della via della Valsugana: qui, nel piccolo centro di Pergine, Valentino e Isidoro avviarono una bottega per la vendita di olio, sale, coloniali, ferramenta e una serie di altri prodotti, secondo una varietà merceologica analoga a quella della bottega di Trento. Il commercio di olio, importato dal lago di Garda e da Venezia e collocato sulle piazze di Merano e Bolzano e oltralpe, costituiva uno dei principali interessi dei Salvadori, che dagli anni Ottanta del Seicento iniziarono a frequentare regolarmente le fiere bolzanine.

Una prima scelta strategica, destinata ad incidere in termini rilevanti sulla redditività e sulla crescita dell’impresa, fu l’avvio, nel 1693, della produzione e del commercio di tabacco da fiuto. Ottenuto dalla lavorazione di foglie locali e soprattutto di importazione, il tabacco era destinato solo in piccola parte a soddisfare il fabbisogno dei consumatori trentini, e veniva spedito per lo più oltre i confini settentrionali del principato. A fronte dei considerevoli quantitativi inviati alle fiere di Bolzano e venduti ad operatori tirolesi, quantità più consistenti erano collocate oltralpe, nell’area compresa tra Zurigo, Francoforte, Lipsia e Praga.

Un business ancora più redditizio venne individuato, in seguito, nella lavorazione e nel commercio della seta. I Salvadori erano attivi da tempo nel comparto serico, attraverso la gestione di una filanda a Pergine e la compravendita di seta greggia, ma a partire dagli anni Quaranta del Settecento perseguirono una chiara strategia di integrazione verticale, entrando in possesso di due filatoi idraulici, l’uno a Calliano, villaggio del principato vescovile, e l’altro a Trento. La scelta dei Salvadori, che nel frattempo erano giunti alla seconda e terza generazione e avevano acquisito la cittadinanza trentina, si inseriva nel quadro di una generale espansione delle attività seriche nell’area trentinotirolese. Tra Sei e Settecento, la lavorazione della seta aveva conosciuto una [ 135 ]decisa affermazione nel distretto di Rovereto, centro principale di un complesso di territori, i Welsche Konfinen, sottoposti alla giurisdizione tirolese. La manifattura roveretana era andata specializzandosi, in particolare, nella produzione di trame e orsogli di qualità, apprezzati in tutta Europa, mentre nel vicino centro di Ala si era affermata la produzione di velluti neri e pesanti, destinati al mercato tedesco.[7]

Allo sviluppo del setificio contribuirono una serie di fattori, quali il clima favorevole alla coltivazione dei gelsi, indispensabili per l’alimentazione dei bachi, la presenza di corsi d’acqua che attraverso un sistema di canali artificiali azionavano i filatoi idraulici, e la collocazione strategica della regione lungo la principale via di transito tra Italia e Mitteleuropa. Non poco rilievo assunsero, poi, i privilegi fiscali accordati ai territori di Rovereto e Ala ai tempi della dominazione veneziana e confermati, dopo il 1509, dall’imperatore Massimiliano I. Anche il principato trentino conobbe un consistente sviluppo della produzione serica, ma la seta era prevalentemente esportata allo stato greggio, tant’è che a metà Settecento erano attivi a Trento solamente due filatoi idraulici, uno di proprietà dei Salvadori e l’altro del magistrato consolare. ItSalvadori, come molti altri mercanti-imprenditori serici, controllavano la commercializzazione del semilavorato e coordinavano il processo produttivo mediante un’accorta combinazione di Kaufsystem, Verlagssystem e produzione centralizzata.[8] Acquistavano la seta greggia da piccole filande o contadini sparsi nelle campagne circostanti e, in qualità di Verleger, anticipavano capitali e materie prime ad alcune filande, per poi collocare il semilavorato sul mercato o sottoporlo a lavorazione nei filatoi di proprietà. Lo sfruttamento della forza idraulica per la torcitura della seta imponeva un parziale accentramento delle operazioni, ma anche la trattura venne in parte concentrata in filande di proprietà, allo scopo di accrescere il controllo sulla mano d’opera e realizzare un filato più omogeneo e di qualità più elevata. Due filande, situate a Trento e a Calliano, si aggiunsero a quella di Pergine, cosicché, a metà Settecento, 48 bacinelle di trattura fornivano una quota consistente, talvolta superiore al 70-80 percento, della seta greggia lavorata nei filatoi dei Salvadori. Allo stesso tempo, la prosecuzione delle commesse a filande e filatoi esterni permetteva di rispondere in modo flessibile alle fluttuazioni del mercato.

II ricavato della vendita della seta venne a costituire una quota preponderante, pari all’80-90 percento, del volume d’affari dell’impresa. Il semilavorato, grezzo o ritorto, alimentava cospicue spedizioni alle manifatture tessili d’oltralpe, dove Krefeld, Vienna, Zurigo e Lipsia figuravano tra i principali mercati di [ 136 ]sbocco (fig. 2). In particolare, tra il 1747 e il 1796, Krefeld e Zurigo ricevettero rispettivamente il 50,3 percento e il 18,7 percento della seta spedita dai Salvadori. Se a Zurigo i contatti più assidui erano quelli con i Muralt, nella località renana i Salvadori entrarono in stretti rapporti soprattutto con la ditta Federico e Enrico von der Leyen, che in alcuni anni acquistò sino al 60 percento della seta esportata dalla ditta trentina. Le spedizioni più consistenti vennero effettuate negli anni Ottanta, quando la ditta di Krefeld raggiunse l’apice del successo, affermandosi come una delle maggiori imprese seriche a livello internazionale. Lo stretto legame con i von der Leyen si rivelò, peraltro, piuttosto rischioso a fine secolo, quando, nel corso delle guerre napoleoniche, le armate francesi occuparono i territori sulla riva sinistra del Reno, inclusa Krefeld. Dal crollo drammatico delle spedizioni che ne seguì, la ditta Salvadori seppe comunque riprendersi, trovando ad esempio nuovi sbocchi sul mercato londinese.

Sebbene le scelte strategiche adottate dai Salvadori avessero privilegiato, di volta in volta, particolari prodotti - dapprima l’olio, poi il tabacco, e quindi la seta - per gran parte del Settecento l’impresa conservò una certa diversificazione merceologica. In seguito, non perse comunque quel carattere multifunzionale che era tipico di molte imprese di antico regime, che accanto al commercio a lunga distanza esercitavano anche attività di carattere manifatturiero e bancario.[9] In un contesto in cui l’incertezza e la limitata dimensione dei mercati inducevano a diversificare gli affari, i Salvadori decisero inizialmente di non specializzarsi in un particolare prodotto o attività, e si impegnarono invece su più fronti: parteciparono al commercio di transito, agendo da intermediari per conto di ditte veronesi e tedesche, e commercializzarono un’ampia gamma di merci, compresi vino e marroni. Solamente negli ultimi decenni del Settecento, quando le redini dell’impresa passarono alla terza e quarta generazione, si intraprese una strategia di graduale focalizzazione che culminò, negli anni Ottanta, nella scelta di concentrare le attività aziendali sulla produzione e sul commercio della seta e sulle negoziazioni cambiarie connesse. Nel 1780-1781, vennero quindi ceduti due rami storici come il negozio di Pergine e quello del tabacco, ritirando risorse da due comparti che presentavano, rispettivamente, un andamento decrescente degli utili e del fatturato, per destinarle ad impieghi più redditizi e con maggiori prospettive di sviluppo. [ 137 ]Fig. 2: Seta spedita per località di destinazione, in libbre di Vienna (1747-1800)


Nota: Una libbra di Vienna pesava 560 grammi.


Profitto e accumulazione del capitale tra logiche d'impresa e scelte famigliari

La comunione patrimoniale rafforzava il ruolo della famiglia quale fonte, anche indiretta, dei capitali necessari all’espansione degli affari. La presenza di un patrimonio comune a garanzia delle obbligazioni sociali aumentava il credito dell’impresa facilitando la raccolta di risorse esterne, ad esempio attraverso le fiere di Bolzano, anche se, nel corso del Settecento, iniziò in realtà a prevalere l’esigenza di investire la liquidità in eccesso.

Non mancarono alcune interruzioni del regime di comunione, come avvenne nel 1716, quando i figli di Valentino e Isidoro decisero di separarsi dai parenti di Mori, e nel 1747, quando la linea di Trento, discendente da Isidoro, si separò da quella di Pergine, discendente da Valentino.[10] A partire da quel momento, [ 138 ]essendo rimasto il ramo perginese con un unico erede in giovane età, gli affari furono gestiti esclusivamente dai Salvadori di Trento. Nella seconda metà del secolo, benché il patrimonio famigliare subisse ulteriori divisioni, l’impresa rimase di proprietà comune, e i membri della famiglia - una «famiglia allar¬ gata», che includeva zii e cugini - continuarono a partecipare agli affari, gestiti a fine secolo dalla quarta generazione. I Salvadori non soffrirono, dunque, della cosiddetta «sindrome dei Buddenbrook», secondo la quale le imprese famigliari tenderebbero a non sopravvivere alla terza generazione.

Nemmeno la duplice interruzione della comunione causò restrizioni alle attività originarie, benché il «capitale netto» a garanzia dei creditori - dato dalla differenza tra l’attivo e i debiti aziendali - risultasse inevitabilmente dimezzato. L’impresa aveva raggiunto, evidentemente, un sufficiente grado di solidità. Se si considera che, all’epoca, il capitale necessario per avviare un negozio serico variava dai 30 ai 60 mila fiorini,[11] la ditta trentina poteva vantare una consistenza patrimoniale di indubbio rilievo, disponendo di un capitale netto che si avvicinava ai 49’000 fiorini dopo la prima divisione, e ammontava a oltre 118’000 fiorini dopo la seconda (fig. 3).

Il tasso medio di crescita del capitale netto, ricostruito sulla base di alcuni inventari generali, mostra per altro un evidente rallentamento nella seconda metà del Settecento. Dal momento che il capitale netto include i profitti reinvestiti, la causa potrebbe essere individuata in un peggioramento della redditività aziendale, sennonché va tenuto conto anche dell’impatto che l’ascesa sociale della famiglia può avere esercitato sulle scelte di reimpiego degli utili. È probabile, infatti, che si sia verificata una maggiore estrazione di risorse rispetto al passato, per sostenere i maggiori consumi legati ad un tenore di vita più elevato, o per l’acquisizione di proprietà immobiliari. Proprio negli ultimi decenni del secolo, si registra un parziale mutamento nei rapporti tra famiglia e impresa, con la crescita progressiva del patrimonio personale dei singoli componenti, titolari di una sfera personale distinta da quella aziendale, che restava invece proprietà comune. Del resto, indipendentemente dalla partecipazione attiva agli affari, i famigliari avevano diritto a percepire una remunerazione per la porzione di assets che fornivano a garanzia delle obbligazioni sociali. Andrebbe dunque verificato se i prelievi effettuati rappresentassero o meno la giusta remunerazione per il contributo dato alla gestione e per il capitale di rischio investito nell’impresa.

Motivazioni legate allo status famigliare influenzarono probabilmente anche alcune scelte strategiche di fondo. L’abbandono di un’attività minore come [ 139 ]Fig. 3: Attività, passività e capitale netto della ditta Salvadori, in fiorini

Nota: Per il 1747 il grafico riporta la situazione prima e dopo la divisione tra le case di Trento e Pergine. Il forte incremento delle passività è legato al debito contratto verso l’erede della linea di Pergine per la liquidazione della quota di sua spettanza.


il commercio di marroni poco prima di ottenere, nel 1766, il titolo baronale, potrebbe non costituire una mera coincidenza. Analogamente, non va trascurato l’impatto che considerazioni di natura extra-economica possono avere esercitato sulla strategia di focalizzazione sul comparto serico. L’attività in questo settore garantiva infatti maggiore prestigio a una famiglia in procinto di essere ammessa nella ristretta cerchia del patriziato cittadino, una meta cui potevano ambire, di solito dopo una lunga attesa, quei mercanti che avessero conseguito un notevole successo negli affari, accumulando considerevoli fortune.[12]

La razionalità della gestione, la logica del profitto, l’importanza attribuita all’accumulazione del capitale, sembrano messe in dubbio anche dalle tecniche contabili adottate, che non contemplavano l’utilizzo della partita doppia, bensì di quella semplice, e non prevedevano chiusure periodiche dei conti. D’altro [ 140 ]canto, il dibattito sull’importanza da assegnare a tecniche contabili elaborate, quale espressione di una gestione razionale ed efficiente, è tutt’altro che concluso.[13] Certo è che, sebbene il guadagno non fosse l’unica molla dell’agire imprenditoriale, l’orientamento al profitto emerge in termini piuttosto evidenti dalla contabilità relativa ai filatoi di Trento e Calliano, per i quali si procedeva con cadenza pressoché annuale alla compilazione di un bilancio dei costi e dei ricavi, e alla determinazione del risultato dell’esercizio.


La formazione del capitale umano: valori e competenze

Alcune scelte matrimoniali particolarmente oculate contribuirono, allo stesso tempo, ad accrescere il patrimonio famigliare e ad assicurare la prosecuzione dell’impresa. Il caso più eclatante è il matrimonio tra Valentino (1694-1768), figlio di Isidoro, e Maria Elena Mozer, figlia di un facoltoso mercante, che lasciò all’unica erede diverse proprietà e la quota di partecipazione in una compagnia commerciale, per un valore complessivo di circa 50’000 fiorini. Dall’unione nacquero almeno 14 figli, tra cui cinque maschi, che sopravvissero ai genitori, assicurando la continuità della linea di Trento. Altrettanto prolifico fu il matrimonio di Isidoro (1721-1787), figlio di Valentino e Maria Elena, con Afra Menz, figlia di un noto mercante bolzanino, che recò in dote una vasta proprietà viticola: in questo caso, furono 15 i figli nati, ma soltanto due i maschi che sopravvissero ai genitori.

La continuità della discendenza rappresentava, per altro, una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la prosecuzione dell’impresa. Era necessario, infatti, che si instaurassero degli efficaci canali di trasmissione di valori e competenze mercantili, affinché le nuove leve avessero la volontà e la capacità di assumere le redini dell’impresa. Da questo punto di vista, in antico regime la famiglia costituiva il luogo di formazione privilegiato del capitale umano, consentendo ai potenziali mercanti di acquisire un bagaglio di conoscenze tacite e di apprendere il mestiere sin dalla giovane età, attraverso un processo di learning by doing. Alcune competenze, come l’abilità nel gestire i rapporti umani e nella contrattazione, la capacità di persuasione e l’intuito nell’individuare le occasioni d’affari più propizie, erano difficilmente trasmissibili, in quanto legate in gran parte alle attitudini personali, ma la formazione sul campo contribuiva comunque a favorirne lo sviluppo, oltre a consentire di acquisire competenze di natura più tecnica, come la tenuta di [ 141 ]una contabilità chiara e precisa e la redazione di una corrispondenza efficace. In un contesto in cui il processo formativo era più pratico che teorico, la famiglia era in grado di fornire al futuro mercante le competenze aritmetiche e umanistiche di base, così come quell’«école sur le tas», che costituiva una parte fondamentale del percorso di apprendimento. Ma prima di partecipare a pieno titolo all’impresa famigliare, le giovani leve erano solite trascorrere un periodo all’estero per apprendere una lingua straniera e perfezionare l’uso delle tecniche contabili.[14]

Così, Valentino Salvadori (1694-1768), una volta inviato il figlio Isidoro (1721-1787) a fare pratica di mercatura ad Augsburg, si raccomandava «di farlo operare e di non lasciarlo in ocio ma il prencipalle è che si perfecioni nella scri- tura tedesca e conti». Nel secondo Settecento, ai rampolli della famiglia Salva- dori venne impartita anche un’istruzione formale, di carattere classico-umanistico, ma un’esperienza professionale in Germania rimase un requisito essenziale per coloro che erano destinati a reggere le fila dell’impresa. Difatti, anche il figlio di Isidoro, Valentino (1752-1833), trascorse lunghi periodi ad Augsburg, ospitato dai Biolley, una famiglia mercantile imparentata con i Salvadori.

Il ruolo della famiglia si dimostrò efficace anche nella trasmissione di un sistema di valori funzionale allo sviluppo degli affari. Dopo l’ingresso nel patriziato urbano, i Salvadori non abbandonarono l’attività mercantile, ma continuarono a reggere le redini di un’impresa che, allo scorcio del secolo, si presentava come la maggiore casa commerciale di Trento. Emerge, sotto questo aspetto, una differenza sostanziale rispetto al comportamento di molte case mercantili roveretane. Il distretto serico di Rovereto era infatti contrassegnato da un frequente ricambio imprenditoriale. Dopo la prima o seconda generazione, i mercanti si ritiravano dagli affari, limitandosi al finanziamento di imprese altrui o all’amministrazione delle proprietà acquisite con i proventi delle attività commerciali.[15] Lo scopo era fuggire i rischi del commercio, ma soprattutto conseguire uno status associato più al possesso che non alla produzione di ricchezza. Si trattava dunque di un problema essenzialmente culturale, per cultura si vuole intendere un complesso di idee, convinzioni, attitudini, valori e conoscenze, trasmissibili attraverso l’esperienza o l’istruzione, e in grado di modellare ambizioni e comportamenti, compresi quelli economici. Se i Salvadori riuscirono a sottrarsi per quasi due secoli al destino di molte case commerciali roveretane, ciò fu dovuto in parte alla capacità della famiglia di trasmettere alle generazioni successive un sistema di valori, che indusse i discendenti a continuare ad investire energie e capitali nell’attività d’impresa. [ 142 ] Capitale sociale, fiducia e informazioni: la costruzione del «network»

La dimensione sociale e culturale, che sempre permea le transazioni economiche determinandone il grado di efficienza, ha indotto diversi studiosi ad approfondire il rapporto tra fiducia e affari. Se per fiducia si intende «l’aspettativa, che nasce all’interno di una comunità, di un comportamento prevedibile, corretto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise, da parte dei suoi membri»[16] - dove per comunità può intendersi la famiglia o un gruppo molto più vasto, ad esempio una rete di corrispondenti - è evidente come l’aspetto fiduciario costituisca una componente essenziale sia nei rapporti societari,[17] sia nelle comuni transazioni di mercato.

All’interno di una compagine societaria, un certo grado di fiducia consente di ridurre i «costi di agenzia», ossia gli oneri legati a una situazione di asimmetria informativa tra principale e agente, e al rischio dell’adozione di comportamenti opportunistici da parte di quest’ultimo, intendendo per agente il soggetto incaricato di agire a nome e nell’interesse del principale. Da questo punto di vista, le relazioni famigliari consentirebbero, secondo alcuni, di ridurre i costi di agenzia, incentivando i soggetti incaricati ad agire nell’interesse della ditta comune, e facilitandone il monitoraggio. La fedeltà verso la famiglia e l’impegno a contribuire al successo a lungo termine dell’ impresa, al cui valore si lega la ricchezza personale dei singoli, scoraggerebbero i comportamenti opportunistici. D’altro canto i titolari potrebbero anche dimostrarsi eccessivamente generosi nei confronti dei famigliari, rivelandosi poco propensi a monitorarne il comportamento ota sanzionare coloro che non adempissero agli impegni, mentre la garanzia di un impiego sicuro potrebbe incentivare comportamenti di free riding.[18]

Un’altra modalità con cui i Salvadori affrontarono i problemi di agenzia fu la stipulazione di relazioni contrattuali esplicite e formalizzate, in cui si stabilivano i limiti all’autonomia decisionale del direttore, i libri contabili da tenere per consentire il monitoraggio della gestione e le modalità di risoluzione delle controversie, solitamente sottoposte all’arbitrato di persone di fiducia. Ricorrendo alla formula della compagnia, i Salvadori entrarono in affari con persone estranee alla famiglia, agendo solitamente in veste di «capitalisti» e lasciando che il socio apportasse le proprie competenze tecniche o direttive. I rischi impliciti nel rapporto principale-agente venivano ridotti riconoscendo al responsabile della direzione una compartecipazione agli utili, e quindi allineando gli interessi dell’agente con quelli del principale. [ 143 ]Nel tardo Seicento, vennero costituite compagnie per la concia del cuoio, la produzione di sapone, il commercio di acquavite e lo sfruttamento minerario. In particolare, la compagnia stipulata con un mercante di provenienza veronese consentì ai Salvadori di acquisire il «segreto» della produzione del tabacco da fiuto, mentre nella prima metà del Settecento i Salvadori entrarono in società con due ex-dipendenti, che grazie al loro contributo finanziario assunsero la direzione di una propria impresa - rispettivamente un negozio di tabacco a Trento e una bottega di «pannine» a Pergine - condividendone risultati e rischi. Ma la compagnia più longeva fu quella istituita, nel 1731, per la gestione del negozio di Pergine dei Salvadori, che vide il coinvolgimento di un ex-agente e, inizialmente, di un altro mercante, e si protrasse per un cinquantennio. In seguito, i contratti di compagnia rifletterono la crescente specializzazione dell’impresa nel comparto serico: dal 1745 al 1760, i Salvadori aderirono a una società promossa dal magistrato consolare di Trento per incentivare lo sviluppo della filatura serica e, a fine secolo, costituirono una compagnia per la gestione della filanda di Trento, affidandone la direzione a un socio. Se l’instaurazione di un rapporto di fiducia, a livello famigliare o societario, era funzionale alla gestione di una serie di attività e quindi allo sfruttamento delle opportunità di profitto che potevano presentarsi, lo sviluppo degli affari doveva essere necessariamente supportato anche dall’inserimento in un’ampia rete di corrispondenti, dove il grado di fiducia cresceva proporzionalmente alla durata del rapporto. In questo contesto, la fiducia favoriva gli scambi e rendeva possibili operazioni che altrimenti non sarebbero state eseguite, in quanto riduceva i costi di transazione, ovvero i costi di raccolta delle informazioni, di negoziazione e di esecuzione dei contratti.[19]

La costruzione del network da parte della ditta Salvadori avvenne attraverso un processo cumulativo, stimolato dalla partecipazione al commercio di transito e dalla conseguente instaurazione di stretti rapporti con le maggiori case di commercio e spedizione di Bolzano e Verona, ma anche dalla frequentazione delle fiere bolzanine e dal collocamento oltralpe dei prodotti dell’impresa, in particolare tabacco e seta. Le fiere di Bolzano favorirono i contatti con mercanti italiani, tedeschi, svizzeri e austriaci, che in occasione dei quattro appuntamenti annuali avevano modo di incontrarsi, raccogliere informazioni, effettuare e ricevere pagamenti, stipulare accordi commerciali, concludere negoziazioni cambiarie, dare o prendere a prestito denaro mediante depositi di fiera.[20] Un’autonoma autorità giurisdizionale, il Magistrato mercantile, aveva il compito di supervisionare l’attività fieristica, curare gli interessi [ 144 ]dei mercanti e dirimere le controversie, consentendo una rapida soluzione delle dispute. Articolato in due tribunali, rispettivamente di prima istanza e d’appello, composti ciascuno da un console e due consiglieri, il magistrato era eletto dai contrattanti, ossia dai principali mercanti che frequentavano le fiere. La ripetuta elezione dei Salvadori nelle file del Magistrato mercantile, a partire da metà Settecento, costituisce dunque un segno evidente del prestigio economico e sociale raggiunto.

La rete dei corrispondenti della ditta trentina era, naturalmente, molto più ampia rispetto alla cerchia dei partecipanti alle fiere di Bolzano, né si limitava ai clienti e ai fornitori dell’impresa. Dalla sua estensione dipendeva, infatti, la capacità di acquisire le informazioni utili a supportare il processo decisionale, da quelle di carattere militare o politico, che potevano influire sulle dinamiche di mercato, a quelle inerenti l’andamento della campagna gelsibachicola in altre regioni italiane, il prezzo e la qualità della seta greggia, l’esito delle fiere di Brescia, Bergamo e Senigallia, e quello delle fiere di Beaucaire, Lipsia e Francoforte, importanti centri di intermediazione dei prodotti serici. In un’eco¬ nomia dominata dal rischio e dall’incertezza, l’informazione assumeva un valore strategico, accrescendo le opportunità di profitto di coloro che erano in grado di accedervi.[21] La conoscenza del mercato si acquisiva con la pratica ed era favorita dalla partecipazione a mercati di livello superiore, ma il livello delle attività commerciali e l’estensione della rete dei corrispondenti dipendevano, a loro volta, dal volume di capitale investito negli scambi. L’ampliamento del network non può pertanto essere considerato disgiuntamente dalla crescita del capitale aziendale, né dalla formazione del capitale umano necessario a gestire una rete complessa di rapporti.

Il possesso di un reticolo durevole di relazioni, fondate su scambi materiali e simbolici, e frutto di una strategia di investimento, individua, secondo la definizione di Bourdieu, l’insieme delle risorse che un attore è in grado di mobilitare e che costituiscono il cosiddetto «capitale sociale».[22] Alla base della costruzione del capitale sociale vi sono una cultura e un sistema di valori condivisi, che favoriscono la fiducia reciproca e la cooperazione spontanea e sanzionano itcomportamenti opportunistici, incoraggiando gli scambi e consentendo ai singoli operatori di disporre di una rete di conoscenze sfruttabili per ottenere informazioni rilevanti.

La durata di un rapporto d’affari è un fattore che sicuramente favorisce il consolidamento di una relazione fiduciaria. Come è noto dalla teoria dei giochi, infatti, un comportamento cooperativo ha maggiore probabilità di affermarsi [ 145 ]in un gioco ripetuto, in quanto l’infinita ripetizione di una transazione può indurre le parti a rinunciare ai profitti di breve periodo per conseguire maggiori guadagni in futuro. La continuità di una relazione d’affari assume rilievo, in particolare, quando l’identità della controparte conta, e ciò si verifica quando essa contribuisce a determinare la qualità dell’oggetto scambiato, oppure quando si effettuano transazioni che comportano impegni nel lungo periodo.[23] Queste condizioni si verificavano nel comparto del tabacco, e soprattutto in quello serico, dove l’aspetto qualitativo era fondamentale, il valore del prodotto elevato e i pagamenti soggetti a lunghe dilazioni. In questo caso, era cruciale per la ditta Salvadori acquisire informazioni sulla solvibilità dei potenziali acquirenti, allo scopo di stabilire l’ammontare massimo di fido che poteva accordare, ossia il valore della merce che poteva vendere a credito. È significativo che proprio a partire dal 1694, dopo l’avvio del commercio di tabacco, i Salvadori abbiano iniziato a compilare un libretto di informazioni commerciali, annotando accuratamente tutte le notizie ottenute sui corrispondenti. Fondamentale era, in questo contesto, il ruolo degli «intermediari di fiducia»,[24] cui l’impresa faceva ricorso quando non poteva valutare l’affidabilità della controparte basandosi sull’esperienza passata o sul contatto diretto stabilito in occasione delle fiere o di viaggi occasionali.

L’instaurazione di una relazione di lunga durata, attivando il meccanismo della reputazione, contribuiva a ridurre i costi di transazione, e lo stesso meccanismo rafforzava, allo stesso tempo, l’affidabilità dei Salvadori agli occhi dei potenziali acquirenti. La continuità della ditta rendeva, infatti, più convincente la promessa di rispettare gli impegni presi, e consentiva ai titolari di fare appello alla lunga tradizione dell’impresa, e alla sua correttezza negli affari, per rafforzare la propria reputazione. E il mantenimento di una buona reputazione era fondamentale in un’economia caratterizzata da un sistema di scambi non solo materiali, ma anche culturali, in cui ogni transazione era basata sul credito o sulla fiducia.[25] Come affermava un proverbio inglese dell’ epoca: “He that has lost his credit is dead to the world.”[26]

Dall’esperienza dei Salvadori emerge, dunque, in termini piuttosto evidenti come il successo di un’impresa di antico regime non dipendesse solamente dalle risorse materiali di cui era dotata, ma fosse supportato anche da elementi immateriali, come il livello di capitale umano e sociale su cui la ditta poteva far leva, e nella cui formazione la famiglia poteva giocare un ruolo di rilievo. [ 146 ]Note

1 S. Cavaciocchi (a cura di), L’impresa. Industria commercio banca, secc. XIII—XVIII, Firenze 1991; G. Berta, L'imprenditore. Un enigma tra economia e storia, Venezia 2004; Y. Cassis, I. Pepelasis Minoglou (a cura di), Entrepreneurship in Theory and History, Basingstoke (UK) 2005. Si vedano, inoltre, le interessanti osservazioni di P. Stabel, «Imprenditori e cultura imprenditoriale dall’età delle corporazioni medievali al <quarto capitalismo> del XXI secolo», Annali di storia dell'impresa, 14, 2003, pp. 355-375.

2 F. Amatori, A. Colli, P A. Toninelli, Entrepreneurs, Paper presentato all’International Colloquium «Entrepreneurs and Managers», Università Bocconi, Milano, 10-12 ottobre 2002.

3 Interessanti le osservazioni di A. Bonoldi, «I signori della fiera: le famiglie mercantili bolzanine del XVIII secolo tra politica ed economia», in: Veröffentlichungen des Forschungsinstituts zur Geschichte des Alpenraums, Bd. 9: Alpenländischer Kapitalismus in vorindustrieller Zeit, pp. 45-54.

4 Sulle vicende famigliari e imprenditoriali dei Salvadori, cf. C. Lorandini, Famiglia e impresa. I Salvadori di Trento nei secoli XVII e XVIII, Bologna 2006.

5 Il modello dell’impresa famigliare ha attirato l’attenzione di un numero crescente di studiosi di varie discipline, che ne hanno esaminato punti di forza e di debolezza, e hanno tentato di costruire un apparato teorico e metodologico per la sua analisi: G. Jones, M. B. Rose (a cura di), Business History, 35, 4, Special Issue on Family Capitalism, 1993; Entrepreneurship. Theory and Practice, 30, 6, Special Issue on Theory of the Family Enterprise, 2006; A. Colli, The History of Family Business, 1850-2000, Cambridge 2003; si vedano inoltre gli articoli apparsi, dal 1988, sulla Family Business Review, e in particolare H. S. James, «What Can the Family Contribute to Business? Examining Contractual Relationships», Family Business Review, 12, 1, 1999, pp. 61-71.

6 Mori, con Ala, Avio e Brentonico, faceva parte dei cosiddetti Quattro Vicariati, feudo del principe vescovo di Trento.

7 N. Cristani de Rallo, Breve descrizione della Pretura di Rovereto (1766), a cura di A. Leonardi, Rovereto 1988, pp. 42-44; I. Pastori Bassetto, Crescita e declino di un'area di frontiera. Sete e mercanti ad Ala nel XVII e XVIII secolo, Milano 1986.

8 Sull’organizzazione della produzione manifatturiera in antico regime, cf. P. Kriedte, H. Medick, J. Schlumbohm, Industrialisierung vor der Industrialisierung, Göttingen 1977; S. C. Ogilvie, M. Cerman (a cura di), European Proto-Industrialization, Cambridge 1996.

9 B. Supple, «La natura dell’impresa», in: M. M. Postan, P. Mathias (a cura di), Storia economica Cambridge, V: Economia e società in Europa nell'età moderna, Torino 1978, p. 470; F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Bologna 1981, pp. 71-72.

10 Entrambi i rami acquisirono la cittadinanza di Trento e furono ammessi nella comunità di Pergine, pertanto la distinzione tra le due linee era legata evidentemente alla residenza principale.

11 C. Lorandini, «Die Trentiner Seidenverleger zwischen Norden und Süden: Ein prosopographischer Zugang», Scripta Mercaturae. Zeitschrift für Wirtschafts- und Sozialgeschichte, 42, 1, 2008, p. 56.

12 M. Nequirito, Il tramonto del Principato vescovile di Trento. Vicende politiche e conflitti istituzionali, Trento 1996, pp. 168-171.

13 R. H. Parker, B. S. Yamey (a cura di), Accounting History: Some British Contributions, New York 1994.

14 F. Angiolini, D. Roche (a cura di), Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, Paris 1995. Si vedano, in particolare, i contributi di P. Jeannin, «Distinction des compétences et niveaux de qualification: les savoirs négociants dans l’Europe moderne», e A. Leonardi, «Corporation et expérience «sur le tas»: la formation d’un marchand-entrepreneur dans l’Autriche de Marie-Thérèse».

15 A. Leonardi, «Un’occasione perduta: la mancata industrializzazione del Trentino nel secolo XIX», [ 147 ] in: M. Allegri (a cura di), Rovereto, il Tirolo, l'Italia: dall invasione napoleonica alla belle époque, t. I, Rovereto 2001.

16 F. Fukuyama, Fiducia, Milano 1996, p. 40.

17 W. Panciera, Fiducia e affari nella società veneziana del Settecento, Padova 2000.

18 W. S. Schulze et al., «Agency Relationships in Family Firms: Theory and Evidence», Organization Science, 12, 1, 2002, pp. 99-116.

19 D. C. North, «Transaction Costs in History», The Journal of European Economic History, 14, 3, 1985, pp. 557-576.

20 Sulle fiere di Bolzano: A. Bonoldi, La fiera e il dazio. Economia e politica commerciale nel Tirolo del secondo Settecento, Trento 1999; M. Denzel, Die Bozner Messen und ihr Zahlungsverkehr (1633-1850), Bolzano 2005.

21 J.-Y. Grenier, L'économie d'Ancien Régime. Un monde de l'échange et de l'incertitude, Paris 1996, p. 418.

22 P. Bourdieu, «Le capital social», Actes de la recherche en sciences sociales, 31, 1980, pp. 2-3.

23 Y. Ben-Porath, «The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the Organization of Exchange», Population and Development Review, 6, 1, 1980, pp. 1-30.

24 J. S. Coleman, Foundations of Social Theory, Cambridge (MS) 1990.

25 C. Muldrew, The Economy of Obligation. The Culture of Credit and Social Relations in Early Modern England, Basingstoke 1998, p. 4.

26 N. Glaisyer, «Calculating Credibility: Print Culture, Trust and Economic Figures in Early Eighteenth-Century England», The Economic History Review, 60, 4, 2007, p. 686.

  1. 1 S. Cavaciocchi (a cura di), L’impresa. Industria commercio banca, secc. XIII—XVIII, Firenze 1991; G. Berta, L'imprenditore. Un enigma tra economia e storia, Venezia 2004; Y. Cassis, I. Pepelasis Minoglou (a cura di), Entrepreneurship in Theory and History, Basingstoke (UK) 2005. Si vedano, inoltre, le interessanti osservazioni di P. Stabel, «Imprenditori e cultura imprenditoriale dall’età delle corporazioni medievali al <quarto capitalismo> del XXI secolo», Annali di storia dell'impresa, 14, 2003, pp. 355-375.
  2. 2 F. Amatori, A. Colli, P A. Toninelli, Entrepreneurs, Paper presentato all’International Colloquium «Entrepreneurs and Managers», Università Bocconi, Milano, 10-12 ottobre 2002.
  3. 3 Interessanti le osservazioni di A. Bonoldi, «I signori della fiera: le famiglie mercantili bolzanine del XVIII secolo tra politica ed economia», in: Veröffentlichungen des Forschungsinstituts zur Geschichte des Alpenraums, Bd. 9: Alpenländischer Kapitalismus in vorindustrieller Zeit, pp. 45-54.
  4. 4 Sulle vicende famigliari e imprenditoriali dei Salvadori, cf. C. Lorandini, Famiglia e impresa. I Salvadori di Trento nei secoli XVII e XVIII, Bologna 2006.
  5. 5 Il modello dell’impresa famigliare ha attirato l’attenzione di un numero crescente di studiosi di varie discipline, che ne hanno esaminato punti di forza e di debolezza, e hanno tentato di costruire un apparato teorico e metodologico per la sua analisi: G. Jones, M. B. Rose (a cura di), Business History, 35, 4, Special Issue on Family Capitalism, 1993; Entrepreneurship. Theory and Practice, 30, 6, Special Issue on Theory of the Family Enterprise, 2006; A. Colli, The History of Family Business, 1850-2000, Cambridge 2003; si vedano inoltre gli articoli apparsi, dal 1988, sulla Family Business Review, e in particolare H. S. James, «What Can the Family Contribute to Business? Examining Contractual Relationships», Family Business Review, 12, 1, 1999, pp. 61-71.
  6. 6 Mori, con Ala, Avio e Brentonico, faceva parte dei cosiddetti Quattro Vicariati, feudo del principe vescovo di Trento.
  7. 7 N. Cristani de Rallo, Breve descrizione della Pretura di Rovereto (1766), a cura di A. Leonardi, Rovereto 1988, pp. 42-44; I. Pastori Bassetto, Crescita e declino di un'area di frontiera. Sete e mercanti ad Ala nel XVII e XVIII secolo, Milano 1986.
  8. 8 Sull’organizzazione della produzione manifatturiera in antico regime, cf. P. Kriedte, H. Medick, J. Schlumbohm, Industrialisierung vor der Industrialisierung, Göttingen 1977; S. C. Ogilvie, M. Cerman (a cura di), European Proto-Industrialization, Cambridge 1996.
  9. 9 B. Supple, «La natura dell’impresa», in: M. M. Postan, P. Mathias (a cura di), Storia economica Cambridge, V: Economia e società in Europa nell'età moderna, Torino 1978, p. 470; F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Bologna 1981, pp. 71-72.
  10. 10 Entrambi i rami acquisirono la cittadinanza di Trento e furono ammessi nella comunità di Pergine, pertanto la distinzione tra le due linee era legata evidentemente alla residenza principale.
  11. 11 C. Lorandini, «Die Trentiner Seidenverleger zwischen Norden und Süden: Ein prosopographischer Zugang», Scripta Mercaturae. Zeitschrift für Wirtschafts- und Sozialgeschichte, 42, 1, 2008, p. 56.
  12. 12 M. Nequirito, Il tramonto del Principato vescovile di Trento. Vicende politiche e conflitti istituzionali, Trento 1996, pp. 168-171.
  13. 13 R. H. Parker, B. S. Yamey (a cura di), Accounting History: Some British Contributions, New York 1994.
  14. 14 F. Angiolini, D. Roche (a cura di), Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, Paris 1995. Si vedano, in particolare, i contributi di P. Jeannin, «Distinction des compétences et niveaux de qualification: les savoirs négociants dans l’Europe moderne», e A. Leonardi, «Corporation et expérience «sur le tas»: la formation d’un marchand-entrepreneur dans l’Autriche de Marie-Thérèse».
  15. 15 A. Leonardi, «Un’occasione perduta: la mancata industrializzazione del Trentino nel secolo XIX»,
  16. 16 F. Fukuyama, Fiducia, Milano 1996, p. 40.
  17. 17 W. Panciera, Fiducia e affari nella società veneziana del Settecento, Padova 2000.
  18. 18 W. S. Schulze et al., «Agency Relationships in Family Firms: Theory and Evidence», Organization Science, 12, 1, 2002, pp. 99-116.
  19. 19 D. C. North, «Transaction Costs in History», The Journal of European Economic History, 14, 3, 1985, pp. 557-576.
  20. 20 Sulle fiere di Bolzano: A. Bonoldi, La fiera e il dazio. Economia e politica commerciale nel Tirolo del secondo Settecento, Trento 1999; M. Denzel, Die Bozner Messen und ihr Zahlungsverkehr (1633-1850), Bolzano 2005.
  21. 21 J.-Y. Grenier, L'économie d'Ancien Régime. Un monde de l'échange et de l'incertitude, Paris 1996, p. 418. 22 P. Bourdieu, «Le capital social», Actes de la recherche en sciences sociales, 31, 1980, pp. 2-3. 23 Y. Ben-Porath, «The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the Organization of Exchange», Population and Development Review, 6, 1, 1980, pp. 1-30. 24 J. S. Coleman, Foundations of Social Theory, Cambridge (MS) 1990. 25 C. Muldrew, The Economy of Obligation. The Culture of Credit and Social Relations in Early Modern England, Basingstoke 1998, p. 4. 26 N. Glaisyer, «Calculating Credibility: Print Culture, Trust and Economic Figures in Early Eighteenth-Century England», The Economic History Review, 60, 4, 2007, p. 686.
  22. 22 P. Bourdieu, «Le capital social», Actes de la recherche en sciences sociales, 31, 1980, pp. 2-3.
  23. 23 Y. Ben-Porath, «The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the Organization of Exchange», Population and Development Review, 6, 1, 1980, pp. 1-30.
  24. 24 J. S. Coleman, Foundations of Social Theory, Cambridge (MS) 1990. 25 C. Muldrew, The Economy of Obligation. The Culture of Credit and Social Relations in Early Modern England, Basingstoke 1998, p. 4. 26 N. Glaisyer, «Calculating Credibility: Print Culture, Trust and Economic Figures in Early Eighteenth-Century England», The Economic History Review, 60, 4, 2007, p. 686.
  25. 25 C. Muldrew, The Economy of Obligation. The Culture of Credit and Social Relations in Early Modern England, Basingstoke 1998, p. 4.
  26. 26 N. Glaisyer, «Calculating Credibility: Print Culture, Trust and Economic Figures in Early Eighteenth-Century England», The Economic History Review, 60, 4, 2007, p. 686.