Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen (1998)/04

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Histoire des Alpes - Storia delle Alpi - Geschichte der Alpen  (1998)  by [[Author:{{{author}}}|{{{author}}}]]
Migrazione e mobilità in area alpina: scenari demografici e fattori socio-strutturali
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[ 37 ]MIGRAZIONE E MOBILITÀ IN AREA ALPINA: SCENARI DEMOGRAFICI E FATTORI SOCIO-STRUTTURALI


Pier Paolo Viazzo


Zusammenfassung


Migration und Mobilität im Alpenraum: demographische Szenarien und soziostrukturelle Faktoren

Dieser Artikel zieht eine kurze Bilanz der Resultate aus der historisch-demographischen Forschung über den Alpenraum in den letzten zwei Jahrzehnten und hebt ihre Implikationen für Migrations- und Mobilitätsstudien hervor. Die Forschung hat gezeigt, dass die alpine Bevölkerungsgeschichte nicht durch Regimes von hohem demographischem Druck charakterisiert war, sondern im allgemeinen von fein kalibrierten Systemen, in denen eine relativ geringe Mortalität von einer beschränkten Natalität aufgewogen wurde. Sie werfen damit schwerwiegende Zweifel auf das kanonische Bild, wonach die alpine Bevölkerung kontinuierlich ihre Überschüsse ins Flachland schicken musste und ein Menschenreservoir im Dienst von wohlhabenderen und dynamischeren Ökonomien bildete. Zugleich wird die Aufmerksamkeit auf ein vor allem von der Anthropologie hervorgehobenes Thema gelenkt, nämlich auf den Einfluss einiger soziostruktureller Faktoren (Vererbungs-systeme, Gemeindestrukturen) auf das Ausmass, die Zusammensetzung, Reichweite, Richtung und Chronologie der alpinen Migrationsbewegungen.

[ 38 ]


LO STUDIO STORICO DELLA MIGRAZIONE E DELLA MOBILITÀ E IL «MODELLO ALPINO»

Sono ormai molti i lavori pubblicati negli ultimi anni in cui si avverte una crescente insoddisfazione nei confronti degli orientamenti che hanno a lungo dominato la ricerca storica su mobilità e migrazione. Una delle questioni più dibattute riguarda il grado di mobilità. A parere di alcuni autorevoli studiosi,[1] il semplice ma cruciale dato cumulativo che emerge dalle indagini più recenti è che le popolazioni europee di antico regime erano assai più mobili di quanto ritenessero i teorici della cosiddetta mobility transition, secondo i quali tra la fine del ’700 e gli inizi del ’900 i paesi europei sarebbero passati - soprattutto a causa dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione - da un regime di quasi totale sedentarietà a tassi elevatissimi di migrazione, che avrebbero fatto della mobilità uno dei tratti distintivi della modernità.[2] Non si nega ovviamente che le forme della mobilità abbiano subito grandi trasformazioni. Ma ben prima della fine dell 'ancien regime il volume dei flussi migratori appare già così elevato da rendere insostenibile e fuorviante un’opposizione dicotomica tra un’Europa tradizionalista, sedentaria, rurale e contadina e un’Europa modernizzata, mobile, urbana e industriale. Una seconda questione ampiamente dibattuta riguarda le cause della mobilità. Anche qui i risultati di numerosi studi recenti stanno mettendo in questione la validità di quel «paradigma della sedentarietà», come lo hanno chiamato alcuni critici,[3] che nella mobilità aveva visto semplicemente uno sradicamento, una pura economia dell’assenza, un fenomeno sostanzialmente passivo riconducibile principalmente a fattori di espulsione quali la pressione demografica o la povertà.

A scuotere questa immagine di un’Europa preindustriale geograficamente immobile e di una migrazione causata soltanto dal sovrappopolamento e dalla povertà hanno concorso diversi sviluppi storiografici. Per noi studiosi del mondo alpino, è gratificante constatare che un contributo non secondario sembra essere venuto proprio da ricerche sull’emigrazione dalle Alpi.

Non è fuori luogo notare che per decenni le tradizionali forme di emigrazione alpina e montana, pur oggetto di una copiosa letteratura specialistica,[4] erano state gradualmente sospinte ai margini della letteratura generale sull’emigrazione dall’importanza assunta nel corso del 19 e del 20 secolo dalla «grande emigrazione» transoceanica e dalle migrazioni interne verso le città, causa di tanta inquietudine politica e sociale.[5] Per varie ragioni, negli [ 39 ]ultimi dieci o quindici anni le antiche forme di mobilità del lavoro caratteristiche delle alte terre europee si sono riproposte all’attenzione degli studiosi dei fenomeni migratori, che con sorpresa hanno constatato che queste migrazioni risultano - tipicamente - già documentate in epoca remotissima, rivelano inattesi elementi di continuità nel lungo periodo e si dimostrano restie a farsi incasellare nelle tipologie e nelle predizioni dei teorici della «transizione migratoria» e della modernizzazione. Come è stato giustamente osservato da più parti,[6] gli studi internazionali sulle migrazioni hanno ricevuto stimoli teorici e metodologici inattesi dall’emergere, in questi ultimi anni, di quello che si è soliti definire il «modello alpino» - un modello interpretativo che invita il ricercatore a respingere ogni spiegazione fondata su un’unica causa o su una rigida delimitazione spaziale e temporale dei fenomeni migratori.[7] E’ appena il caso di ricordare che già nel 1948 Paul Guichonnet aveva osservato che l’emigrazione alpina sembrava essere stata in larga misura émigration de qualité,[8] e che nel 1970 Jean-Pierre Poussou aveva suggerito che le migrazioni dalle montagne erano da vedersi come emigrazioni del mieux-être piuttosto che come fughe dalla povertà: le sue cause, aveva scritto Poussou, «possono, a prima vista, apparire semplici: miseria e sovrappopolamento.

Ma quando si scava un po’ di più, ci si rende conto che la realtà è assai più complessa.»[9] La validità di questo ammonimento è stata ampiamente confermata dagli studi più recenti, che non hanno portato alla luce movimenti disordinati, dettati dal bisogno di sopravvivere in qualche modo, bensì «una circolazione di uomini che avevano progetti, disponevano spesso di risorse, e approfittavano dei margini di scelta concessi loro dai poteri dominanti».[10] Inoltre, ed è questo il punto su cui mi soffermerò qui maggiormente, sembra sempre più difficile vedere nell’emigrazione alpina la semplice espulsione o esportazione di un’eccedenza demografica.


SCENARI DEMOGRAFICI


Ancora una ventina di anni fa era convinzione diffusa che prima delle trasformazioni recenti la demografia delle Alpi fosse stata «di tipo primitivo», non dissimile da quella di molti paesi del Terzo Mondo. Si riteneva che a causa dell’asprezza del clima e dell’ambiente, dell’isolamento e della povertà, la mortalità (sia infantile sia generale) fosse stata inevitabilmente [ 40 ]molto elevata. Questa forte mortalità sarebbe stata controbilanciata da una natalità pure molto elevata, probabilmente dell’ordine del 40%, che avrebbe rappresentato «una sorta di risposta alla <sfida> permanente dell’ambiente montano».[11]

Questo scenario si basava però su estrapolazioni e analogie più che su dati empirici ancora assai scarsi e frammentari. I numerosi studi condotti o comunque pubblicati nel corso degli anni ’80 hanno, come è noto, modificato profondamente questo quadro, dimostrando la fondatezza di quanto alcuni storici e geografi avevano già sospettato, vale a dire che in realtà nelle Alpi si moriva un tempo relativamente poco, con tassi di mortalità infantile che già nel 18 secolo erano non di rado inferiori al 250 o addirittura al 200‰, speranze di vita (e0) che potevano raggiungere e superare i 35 o anche i 40 anni, e quozienti generici di mortalità tipicamente assestati tra il 20 e il 30‰ - tutte cifre decisamente migliori che non nelle pianure circostanti.[12]

Questa scoperta comportava una radicale revisione delle nostre concezioni. Per controbilanciare la mortalità, infatti, non era necessaria una natalità elevata, bensì, al contrario, o una bassa natalità oppure, in alternativa, un ricorso forse massiccio all’emigrazione. Questa seconda soluzione appariva a prima vista la più ovvia, adattandosi bene alla canonica immagine braudeliana della montagna come fabbrica di uomini spinti dalla povertà e dalla pressione demografica a riversarsi a valle, fungendo da serbatoio di manodopera a servizio delle più prospere e dinamiche economie di pianura.[13]

Tuttavia, l’altra fondamentale scoperta delle ricerche di demografia storica degli anni ’80 fu che la nuzialità alpina del passato tendeva ad essere estremamente bassa. L’età al matrimonio era tardiva sia per gli uomini sia per le donne, così come era singolarmente elevata la proporzione di coloro che non si sposavano, spiegando in gran parte livelli di natalità che - in qualunque modo si misurino (quozienti generici di natalità, tassi di fecondità totale, indice If di Princeton) - appaiono in generale assai contenuti.[14]

La storia demografica delle Alpi era dunque stata caratterizzata non da un regime «ad alta pressione», come si era supposto, bensì da un regime «a bassa pressione» in cui tanto la mortalità quanto la natalità erano assai più basse che non nelle pianure. Queste risultanze davano ragione a una delle poche voci dissidenti degli anni ’70, quella della geografa austriaca Elisabeth Lichtenberger, che reagendo contro quelle che definiva «idee preconcette e pericolose intorno al mondo alpino» aveva sostenuto che ben difficilmente le Alpi potevano aver rappresentato un importante serbatoio per [ 41 ]l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché il loro tasso di incremento naturale - l’eccedenza delle nascite sulle morti - era stato forzatamente modesto in quanto «l'età media al matrimonio è sempre stata alta e la percentuale di gente sposata bassa».[15]

Le implicazioni di questo capovolgimento di prospettiva per uno studio dell’emigrazione alpina sono evidentemente di non poco conto. Si può facilmente dimostrare, ad esempio, che un regime demografico a bassa pressione consente - a parità di saldo naturale - un rapporto tra popolazione e risorse più favorevole che non un regime ad alta pressione.[16] Questo significa che sarebbe un errore pensare che le popolazioni alpine siano state, nel passato, economicamente «imprigionate» o «immobilizzate» dalla loro stessa demografia, come espressioni quali «fabbrica di uomini», «regime demografico primitivo», e altre ancora, lascerebbero presumere. Questo significa anche che - pur senza indulgere a forzature interpretative ingiustificatamente rosee - è necessario essere cauti nel parlare di povertà della montagna, e ancor più cauti (per questa e altre ragioni) nello stabilire nessi rigidi tra povertà e emigrazione alpina. L’implicazione più importante discende, tuttavia, dalla scoperta che la natalità non era molto elevata e, di regola, solo di poco superiore alla mortalità.

Questo ci impone di riconsiderare l’intero problema del volume dell’emigrazione permanente alpina e della sua funzione di valvola di sfogo - e, più in generale, di riconsiderare il ruolo dell’emigrazione (permanente, temporanea, stagionale) all’interno dei sistemi demografici alpini. La letteratura precedente aveva sottolineato il carattere strutturale dell’emigrazione dalle montagne - un carattere strutturale, quasi astorico, che la differenziava da altre forme di emigrazione - le cui cause di fondo risiedevano sostanzialmente nello squilibrio esistente tra una popolazione spesso di elevata densità e la povertà del suolo, tra una tendenza endemica al sovrappopolamento e la scarsità delle risorse.[17] Era questo divario tra risorse e popolazione, e la necessità di colmarlo in qualche modo, che dava origine all’emigrazione. Gli studi degli anni ’80 hanno invece mostrato che i sistemi demografici alpini possedevano spesso caratteri «omeostatici»: le nascite e le morti tendevano, in altre parole, a mantenersi in equilibrio a livelli di bassa pressione, senza dare luogo a forti eccedenze di natalità, e il cruciale meccanismo regolatore veniva individuato nella nuzialità, che agiva come una sorta di termostato capace di mantenere i tassi di natalità ai livelli desiderati e di correggere rapidamente eventuali spostamenti rispetto a questi [ 42 ]livelli.[18] Insomma, dove la precedente letteratura aveva insistito sullo squilibrio tra popolazione e risorse e sull’ineluttabilità dell’emigrazione, la ricerca più recente - condotta non solo da storici e demografi, ma anche da geografi e antropologi - insisteva sulla capacità delle società alpine di «calibrare finemente» la popolazione alle risorse.[19] La nuzialità soppiantava dunque l’emigrazione nel ruolo di principale meccanismo regolatore. Da componente strutturale e inevitabile della demografia e dell’economia alpina, l’emigrazione diveniva fenomeno in qualche maniera residuale e opzionale, come dimostravano i casi di comunità in cui si erano riscontrati livelli assai modesti di emigrazione sia permanente sia temporanea o stagionale. E questa opzionalità - conviene notarlo - trasformava l’emigrazione da fenomeno passivo, ineluttabile, in un fatto di scelta, dunque in fenomeno attivo.

Alla fine degli anni ’80 era stato possibile offrire una prima sintesi dei risultati di un decennio di studi particolarmente fecondo per la demografia storica delle Alpi.[20] A quasi dieci anni ormai di distanza, mi sembra si possa dire che nel complesso le principali conclusioni a cui erano arrivati quegli studi sono state confermate negli anni ’90.[21] Può anzi essere interessante segnalare che - soprattutto per quel che concerne la variabile in ultima analisi forse più decisiva, vale a dire la mortalità infantile - l’esempio offerto dalla demografia storica delle Alpi ha condotto studiosi che si occupano di altre regioni europee a prestare maggiore attenzione alle influenze ambientali e a pervenire a conclusioni che corroborano quelle raggiunte nelle Alpi, come mostrano i due importanti libri di David Reher sulla Spagna e di Mary Dobson sull’Inghilterra.[22]

Permanendo valido il quadro generale della demografia alpina di antico regime che è stato qui delineato, si mantengono valide anche le sue implicazioni per lo studio dell’emigrazione. Esistono tuttavia dei rischi che occorre evitare. Un primo rischio è quello di sostituire alla vecchia una nuova ortodossia, certo più solidamente fondata su dati empirici ma non meno incline a generalizzazioni monolitiche e astoriche che tendono a ignorare variazioni spaziali e temporali anche di grande importanza.[23] Un secondo rischio è quello di essere eccessivamente affascinati dalle sirene del modello omeostatico. Come ha giustamente notato Luigi Lorenzetti in un suo recente saggio, mentre le caratteristiche omeostatiche della nuzialità sono state più volte dimostrate nel caso di sistemi chiusi, esse suscitano numerose questioni nel caso di sistemi aperti, in quanto il modello omeostatico «tende a misconoscere l’esistenza di flussi migratori e le loro eventuali implicazioni [ 43 ]in quanto meccanismi di regolazione demografica».[24] Soprattutto nella prima parte di questo saggio nitido e molto istruttivo, Lorenzetti non si occupa tanto di emigrazione permanente quanto piuttosto della capacità che l’emigrazione stagionale aveva, nella prima metà dell’800, di fungere da perno della demografia di una valle ticinese, la Valmaggia, consentendo una forte crescita della popolazione attraverso comportamenti nuziali e riproduttivi che si staccano abbastanza nettamente da quelli rilevati in aree alpine in cui l’emigrazione aveva un peso economico meno importante. Ricorrendo alla classica e sempre produttiva tecnica della «ricostituzione delle famiglie», Lorenzetti articola con precisione demografica l’idea sostenuta in più sedi da Dionigi Albera e da Laurence Fontaine,[25] secondo la quale non è il sovrappopolamento che crea le emigrazioni quanto piuttosto le emigrazioni che creano il sovrappopolamento - o, se si vuole, il rischio di sovrappopolamento quando si producano crisi nelle economie esterne da cui un sistema montano locale economicamente aperto è venuto a dipendere attraverso l’emigrazione stagionale o temporanea. Non meno istruttiva è peraltro la seconda parte del saggio di Lorenzetti, che mostra come nella seconda metà dell’800 un drastico mutamento delle abitudini migratorie della Valmaggia - il passaggio da una forte emigrazione stagionale a una emigrazione transoceanica quasi sempre definitiva - abbia generato un processo di involuzione demografica che conferisce alla Valmaggia caratteri che a prima vista potrebbero essere scambiati per i tratti distintivi di un sistema omeostatico in sano equilibrio, mentre invece sono i segni di una crisi prodotta non da un sovrappopolamento bensì da uno spopolamento e dal collegato declino della produzione agricola e del prodotto marginale del lavoro.[26]


FATTORI SOCIO-STRUTTURALI


In uno studio pubblicato nello stesso volume in cui appare il saggio di Lorenzetti, Michael Anderson ha notato come la ricerca condotta nelle Alpi abbia fornito analisi particolarmente stimolanti dell’interazione tra migrazione e nuzialità come meccanismi regolatori delle demografie di aree agricole marginali europee.[27] Lo studio di Anderson, che prendendo le mosse da questi esempi alpini esplora le interazioni tra migrazione e nuzialità in Scozia tra il 1855 e il 1914, solleva due punti che mi sembra utile toccare, sia pure solo per rapidi accenni, a conclusione di questo mio contributo.

[ 44 ]Il primo punto riguarda l’esistenza di diversi modelli regionali di mobilità. In un suo recentissimo lavoro di sintesi su migrazione e mobilità in Europa in età moderna, Jean-Pierre Poussou, pur concordando sulla necessità di sottolineare l’importanza dei movimenti migratori ben prima che l’industrializzazione e l’urbanizzazione facessero sentire i loro effetti più evidenti, mette in guardia contro il rischio di sovrastimare le dimensioni di questa mobilità di antico regime e, soprattutto, suggerisce l’esistenza di forti diversità regionali non solo nel tipo ma anche nell’intensità della migrazione.[28] Le conclusioni in parte simili a cui perviene Anderson nel suo studio sulle migrazioni in Scozia devono essere motivo di riflessione. Tra il 1970 e il 1990, in alcuni campi vicini quali la demografia storica e la storia della famiglia sono prevalsi orientamenti revisionistici senza dubbio necessari e inizialmente ricchi di fermenti, ma che hanno poi teso a oscurare differenze e problemi, privilegiando le continuità di lunga durata quasi fino a sfociare in una asettica astoricità. I demografi storici e gli storici della famiglia sembrano oggi aver superato questa impasse, e sono ormai consapevoli dell’esistenza di regimi e sistemi demografici assai diversi e di un’ampia gamma di strutture familiari e di modelli di matrimonio. Che in area alpina le forme di migrazione e di mobilità presentassero forti differenze locali e regionali appare indubbio.[29] Questa consapevolezza potrà essere di aiuto agli studi più generali su migrazione e mobilità in Europa affinché evitino gli scogli pericolosi di un mero ribaltamento del «paradigma della sedentarietà».

Una seconda caratteristica importante dello studio di Michael Anderson è il suo sforzo di collegare forme e intensità diverse della migrazione e della mobilità a diversità nelle strutture sociali locali scozzesi.[30] Senza addentrarmi in una questione che meriterebbe ben altro spazio, vorrei semplicemente rilevare che l’interesse prestato tra il 1970 e il 1990 alla meccanica dei sistemi demografici, e dunque alle determinanti prossime, ha in gran parte distolto l’attenzione dalla ricerca delle determinanti ultime - ad esempio, da quell’analisi delle relazioni tra sistemi di eredità, nuzialità e migrazione che pure era stata impostata in termini molto eleganti sin dagli anni ’50 da storici economici come John Habakkuk.[31] L’articolo di Anderson segna per certi versi un ritorno a Habbakuk. Va però detto che quell’approccio, per quanto elegante, era anche piuttosto schematico. Come ha ricordato Laurence Fontaine in un suo recente e assai innovativo articolo sulla devoluzione dei beni nel Delfinato,[32] soprattutto grazie ai lavori degli antropologi è oggi possibile disporre di indicazioni teoriche più sottili riguardo alle implicazioni sia dei [ 45 ]sistemi di eredità sia delle diverse strutture comunitarie - due variabili, o insiemi di variabili, che influenzano fortemente l’emigrazione. Ancora una volta, alcune tra le ricerche antropologiche più significative e ricche di spunti teorici in tal senso sono state condotte in area alpina: basterà ricordare i volumi ormai classici di John Cole e Eric Wolf su Tret e St. Felix, due comunità dell’alta Val di Non, e di Robert Netting sul villaggio vallesano di Tòrbel.[33]

Anche in questo caso si può quindi sperare che gli studi alpini siano di ispirazione agli studi su migrazione e mobilità in altre parti d’Europa.


Note

  1. Si vedano in particolare: James H. Jackson e Leslie Page Moch, «Migration and the Social History of Modern Europe», in: Historical Methods 22, 1989, pp. 27-36; Leslie Page Moch, Moving Europeans. Migration in Western Europe since 1650, Bloomington e Indianapolis 1992; Giovanni Levi, «Appunti sulle migrazioni», in: Bollettino di Demografia Storica, 19, 1993, pp. 35-39; Laurence Fontaine, «Gli studi sulla mobilità in Europa nell’età moderna: problemi e prospettive di ricerca», in: Quaderni Storici 31, 1996, pp. 741-756.
  2. La teoria della mobility transition («transizione migratoria») è stata proposta negli anni ’70 in analogia alla ben nota teoria della «transizione demografica», secondo la quale il raggiungimento di una certa soglia di sviluppo socio-economico comporterebbe, in ogni società, il passaggio da un regime ad alta mortalità e alta fecondità a un regime a ridotta mortalità e fecondità controllata. Tanto la transizione demografica quanto la transizione migratoria sono considerate componenti essenziali del più ampio processo di modernizzazione. La prima formulazione organica della teoria della transizione migratoria si deve al geografo americano Wilbur Zelinsky, «The Hypothesis of the Mobility Transition», in: Geographical Review 61, 1971, pp. 219-249. In questo articolo Zelinsky tenta di coniugare la teoria della transizione demografica con le leggi della migrazione di Ravenstein e con il paradigma geografico della diffusione spaziale delle innovazioni.
  3. Sul «paradigma della sedentarietà» (e sul complementare «paradigma fisiocratico») si veda soprattutto il saggio molto critico e stimolante di Dionigi Albera, «Dalla mobilità all’emigrazione. Il caso del Piemonte sud-occidentale», in: Paola Corti, Ralph Schor (a cura di). L’esodo frontaliero:gli italiani nella Francia meridionale/L’émigration frontalière: les italiens dans la France méridionale, numero speciale di Recherches Régionales, 3ème trimestre 1995, pp. 25-63. Questo saggio sviluppa spunti proposti dallo stesso Albera in un suo precedente lavoro su «L’emigrante alpino: per un approccio meno statico alla mobilità spaziale», in: Daniele Jalla (a cura di). Gli uomini e le Alpi / Les hommes et les Alpes, Torino 1991, pp. 179-206. Un punto di vista molto simile è sostenuto da Laurence Fontaine, «Gli studi sulla mobilità», art. cit., p. 749. In una diversa prospettiva, e con riferimento specifico all’emigrazione alpina, il «paradigma della sedentarietà» è stato messo fortemente in discussione anche da Glauco Sanga, «Un modello antropologico dell’emigrazione alpina», in: La ricerca folklorica, 35, 1997, pp. 121-128. Va peraltro detto che anche in anni recenti non sono mancate prese di posizione a favore del «paradigma della sedentarietà». Per meglio comprendere le ragioni di tali prese di posizione, occorre notare che questo paradigma ha in parte rappresentato - soprattutto in Francia e soprattutto in ambito storico-demografico - una reazione nei confronti di una precedente tendenza a ritenere che la popolazione francese di Ancien Régime comprendesse una enorme proporzione di «erranti», per usare l’espressione di Georges Lefebvre. In uno dei saggi destinati a influenzare più profondamente la nascente demografia storica ( «Les crises de subsistances et la démographie de la France d’Ancien Régime», in: Population 1 [1946], pp. 643-650), Jean Meuvret aveva scritto che «on serait presque tenté de dire qu’il y avait deux peuples, celui des sédentaires et celui des nomades» (p. 648), traendo da questo presunto nomadismo alcune fondamentali conseguenze metodologiche. Le inchieste sulla mobilità promosse negli ultimi decenni dall’Institut National d’Etudes Démographiques hanno dimostrato la limitata fondatezza storica di questa immagine di una popolazione francese composta in gran parte di «erranti», ridimensionando così l’importanza dei rilievi metodologici di Meuvret. Si veda a questo proposito il bilancio di Jean-Pierre Poussou, «Mobilité et migrations», in: Jacques Dupâquier (a cura di), Histoire de la population française, vol. 2, Paris 1988, pp. 99-144.
  4. Due classici lavori di sintesi sono i volumi di Abel Châtelain, Les migrants temporaires en France de 1800 à 1914, Lille 1976, e di Abel Poitrineau, Remues d’hommes. Essai sur les migrations montagnardes en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris 1983.
  5. Sulle cause della progressiva marginalizzazione degli studi sull’emigrazione alpina si veda Paola Corti, «L’émigration italienne: historiographie, anthropologie et recherche comparatiste», in: Revue Européenne des Migrations Internationales 11/3, 1995, pp. 5-17, e anche le osservazioni di Jackson e Moch, «Migration and the Social History of Europe», art. cit., pp. 22-23.
  6. Cfr. ad esempio Corti, «L’émigration italienne» cit., p. 10, e Michael Anderson, «Migration and Nuptiality as Interacting Regulators of Scottish Population Growth, 1855-1914», in: Alain Bideau et al. (a cura di). Les systèmes démographiques du passé, Lyon 1996, pp. 141-160.
  7. Sul «modello alpino» si veda soprattutto Corti, «L’émigration italienne» cit., p. 10.
  8. Paul Guichonnet, «L’émigration alpine vers les pays de langue allemande», in: Revue de Géographie Alpine 36, 1948, pp. 533-576.
  9. Jean-Pierre Poussou, «Les mouvements migratoires en France et à partir de la France de la fin du XVe siècle au début du XIXe siècle: approches pour une synthèse», in: Annales de Démographie Historique, 1970, p. 68.
  10. Albera, «Dalla mobilità all’emigrazione» cit., p. 30.
  11. Paul Guichonnet, «Le développement démographique et économique des régions alpines», in: Paul Guichonnet et al., Le Alpi e l’Europa, vol. 2, Bari 1975, pp. 157-158.
  12. Cfr. Pier Paolo Viazzo, Upland Communities. Environment, Population and Social Structure in the Alps since the Sixteenth Century, Cambridge 1989, pp. 178-223.
  13. Cfr. Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1966, p. 46.
  14. Cfr. Pier Paolo Viazzo, «Il problema dell’equilibrio demografico in montagna. Natalità, nuzialità e emigrazione nell’area alpina tra la metà del XVIII e la fine del XIX secolo», in: Cheiron 7/8, 1988, pp. 88-97.
  15. Elizabeth Lichtenberger, The Eastern Alps, Oxford 1975, p. 7. La nozione di «regime demografico» ad alta o bassa pressione si è imposta nella letteratura storico-demografica a partire dal fondamentale lavoro di E. Anthony Wrigley e Roger S. Schofield, The Population History of England, 1541-1871. A Reconstruction, London 1981.
  16. Una delle ragioni è che un regime ad alta pressione determina un rinnovamento della popolazione meno efficiente, in quanto è maggiore il numero di individui che vivono per un breve periodo e quindi muoiono senza realizzare la loro piena capacità produttiva. Essendo caratterizzato da una struttura di età più giovane, un regime ad alta pressione comporta inoltre un rapporto meno favorevole tra popolazione attiva e popolazione dipendente. Su queste e altre implicazioni dei due opposti regimi demografici si veda Roger S. Schofield, «The Relationship between Démographie Structure and Environment in Pre-industrial Western Europe», in: Werner Conze (a cura di). Sozialgeschichte der Familie in der Neuzeit Europas, Stuttgart 1976, pp. 147-160.
  17. Si vedano le osservazioni di Franco Ramella, «L’emigrazione dei valsesiani», in: Gladys Motta (a cura di), <Ogni strumento è pane>. L’emigrazione dei valsesiani nell’Ottocento, Varallo Sesia 1989, p. 60.
  18. Cfr. Pier Paolo Viazzo e Dionigi Albera, «Population, Resources and Flomeostatic Regulation in the Alps: The Role of Nuptiality», in: Itinera 5/6, 1986, pp. 182-231.
  19. Un lavoro emblematico è il volume dell’antropologo americano Robert M. Netting, Balancing on an Alp. Ecological Change and Continuity in a Swiss Mountain Community, Cambridge 1981. Si veda anche Viazzo, «Il problema dell’equilibrio demografico in montagna» cit., pp. 85-102, che riesamina alla luce dei progressi compiuti dalla ricerca storico-demografica una serie di questioni toccate 40 anni prima da Germaine Veyret- Verner, «Le problème de l’équilibre démographique en montagne», in: Revue de Géographie Alpine 37, 1949, pp. 331-342.
  20. Cfr. Viazzo, Upland Communities, cit. (edizione italiana lievemente riveduta e ampliata: Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna 1990).
  21. L’esistenza di bassi livelli di nuzialità è stata confermata da numerosi studi; tra i più recenti e significativi si possono ricordare quelli di Norbert Ortmayr, «Late Marriage: Causes and Consequences of the Austrian Alpine Marriage Pattern», in: Richard L. Rudolph (a cura di), The European Peasant Family and Society, Liverpool 1995, pp. 49-63, e di Daniela Cocchi, Davide Crivellare, Gianpiero Della Zuanna, Rosella Rettaroli, «Nuzialità, famiglia e sistema agricolo in Italia negli anni ’80 del XIX secolo», in: Genus 52/1-2,1996, pp. 125-159. Per quanto riguarda la mortalità, rimangono aperte alcune questioni relative all’intensità e alla frequenza delle crisi di mortalità (di origine alimentare o «epidemiologica») in epoca medievale e nella prima età moderna. A partire dal 1700 circa, tuttavia, la prevalenza di modesti livelli di mortalità (e in particolare di mortalità infantile) non appare dubbia: si vedano Pier Paolo Viazzo, «Les modèles alpins de mortalité infantile», in: Annales de Démographie Historique, 1994, pp. 97-117; Josef Kytir, Christian Kòck, Rainer Munz, «Historical Regional Patterns of Infant Mortality in Austria», in: European Journal of Population 11, 1995, pp. 243-259; e Anne M. Jones, «Exploiting a Marginal European Environment: Population Control and Resource Management under the Ancien Regime», in: Journal of Family History 16, 1991, pp. 363-379, che sembra confermare l’esistenza di un modello alpino-occidentale caratterizzato da una nuzialità relativamente elevata bilanciata però da livelli alquanto modesti di fecondità, probabilmente connessi alla forte intensità dell’emigrazione temporanea e di altre forme di mobilità.Tassi di natalità anche assai elevati in termini assoluti, e di molto superiori a quelli relativamente modesti di mortalità, sono stati segnalati in varie parti delle Alpi: si vedano ad esempio i lavori di Antonio Lazzarini, «Crisi della montagna bellunese e cause dell’emigrazione», in: Casimira Grandi (a cura di). Emigrazione: memorie e realtà, Trento 1990, pp. 189-215, e «Degrado ambientale e isolamento economico: elementi di crisi della montagna bellunese nell’Ottocento», in: Antonio Lazzarini, Ferruccio Vendramini (a cura di). La montagna veneta in età contemporanea, Roma 1991, pp. 47-50, nonché il recente studio di Luigi Lorenzetti, «Evolution des comportements démographiques face à l’émigration et au dépeuplement: le cas de la Valmaggia (CantonduTessin) au XIXe siècle»,in: Alain Bideau et al. (a cura di.), Les systèmes démographiques du passé, Lyon 1996, pp. 83-102. Questi esempi di divaricazione tra le tendenze della natalità e della natalità - divaricazione peraltro temporanea e, soprattutto nel caso ticinese studiato da Lorenzetti, di breve durata - parrebbero a prima vista contraddittori rispetto al modello omeostatico che per le Alpi e le altre aree montane predice una tendenza alla bassa pressione demogra-fica e al mantenimento di un equilibrio tra le nascite e le morti; va però osservato che periodi di temporaneo squilibrio sono ampiamente compatibili (come dimostrato dal lavoro di Netting, Balancing on an Alp, cit.) con le versioni meno rudimentali e astoriche di tale modello.
  22. Cfr. David S. Reher, Perspectives on the Family in Spain, Past and Present, Oxford 1997, pp. 140-146, e Mary J. Dobson, Contours of Death and Disease in Early Modern England, Cambridge 1997, pp. 160-187, 493-506.
  23. Da un punto di vista spaziale, non va dimenticata l’esistenza di differenze considerevoli all’interno della stessa montagna alpina - differenze regionali (ad esempio, tra le Alpi austriache e le Alpi austriache) e ancor più differenze altimetriche tra basse, medie e alte valli. Di regola, ci si può attendere una diminuzione della mortalità, e una corrispondente diminuzione dei tassi di natalità, quanto più si sale verso le alte valli: anche se gli studi sono ancora poco numerosi, è pertanto probabile che demograficamente le popolazioni di molte basse valli differissero solo lievemente da quelle delle pianure, pur appartenendo di pieno diritto a quella che siamo soliti definire la «montagna» sia per cultura sia per organizzazione socio-economica. Da un punto di vista temporale, invece, occorre non dimenticare che ben prima delle grandi trasformazioni del 20 secolo le Alpi hanno conosciuto in più occasioni variazioni considerevoli nel rapporto tra popolazione e risorse, dovute a cali rapidi della mortalità di cui non sempre sono chiare le cause, a fluttuazioni dei livelli di fecondità, ad aumenti della produttività agricola resi possibili dall’introduzione di nuove coltivazioni. E non vanno ovviamente dimenticate le influenze che sulla demografia di molte vallate hanno esercitato le alterne fortune delle attività commerciali, industriali (minerarie) e protoindustriali che in misura diversa, ma talvolta notevole, si sono affiancate o sovrapposte all’agricoltura e all’allevamento. Sulle cautele da adottarsi nei confronti della nuova ortodossia si veda più diffusamente Pier Paolo Viazzo, «La demografia delle Alpi: caratteri generali e implicazioni socio-economiche», in: Enrico Pelucchi (a cura di). Identità e ruolo delle popolazioni alpine tra passato, presente e futuro, Sondrio 1997, pp. 37-46.
  24. Lorenzetti, «Evolution des comportements démographiques» cit., p. 83.
  25. Lorenzetti, «Evolution des comportements démographiques» cit., pp. 91-99.
  26. Lorenzetti, «Evolution des comportements démographiques» cit., pp. 91-99.
  27. Anderson, «Migration and Nuptiality» cit., pp. 141-142.
  28. Jean-Pierre Poussou, «Migrations et mobilité de la population en Europe à l’époque moderne», in: Jean-Pierre Bardet, Jacques Dupàquier (a cura di), Histoire des populations de l’Europe, vol. 1, Paris 1997, pp. 269-286.
  29. Si vedano ad esempio i saggi riuniti nel numero monografico del Bulletin du Centre Pierre Leon d’histoire économique et sociale (1992/2-3-4) dedicato a Les mobilités, e in particolare le osservazioni di carattere comparativo di Laurence Fontaine, «Introduction: mobilités», ibidem, pp. 5-12, nonché l’ampia «Bibliographie: mobilité dans l’espace alpin / Mobilität in Alpenraum», in: Histoire des Alpes [...] 1997/2, pp. 159-170.
  30. Anderson, «Migration and Nuptiality» cit., pp. 155-157.
  31. FI. J. Habakkuk, «Family Structure and Economic Change in Nineteenth-century Europe», in: Journal of Economic History 15, 1955, pp. 1-12.
  32. Laurence Fontaine, «Devoluzione dei beni nelle valli alpine del Delfinato (XVII-XVIII secolo)», in: Quaderni Storici 20, 1995, pp. 135-154.
  33. John W. Cole e Eric R. Wolf, The Hidden Frontier. Ecology and Ethnicity in an Alpine Valley, New York 1974; Robert M. Netting, Balancing on an Alp cit.